Tra le foto di Instagram capita di imbattersi in un’immagine familiare.
Sul profilo del progetto “In un altro mondo” della Conferenza Episcopale Italiana (Cei), finanziato coi fondi dell’8xmille, appare una foto di una famiglia di Haiti davanti alla loro casa distrutta dall’uragano Matteo.
Dietro quei volti le lamiere della dimora perduta, davanti ai loro occhi la paura del domani, confortata dalla presenza dei volontari italiani, braccia operose della premura della Chiesa che, anche in questo caso, diventa casa che accoglie e ristora.
Quell’immagine è familiare perché somiglia alle foto che padre Ugo Paccagnella inviava da Port–au–Prince. Il dramma di quella terra non è cambiato, non è cambiata – anzi è cresciuta – la presenza della Chiesa, grazie all’infaticabile lavoro dei padri monfortani.
Ma ciò che rende particolarmente prezioso il ministero di padre Ugo è il fatto che lui è riuscito a trasmettere l’amore per quei luoghi, tanto da renderli familiari quando li vediamo in fotografia come se noi, suoi amici italiani, fossimo stati sempre lì, con lui, tra quelle lamiere, a sorridere e abbracciare i poveri. Questa è stata la grandezza del missionario monfortano: non anteporre sé stesso alla sua vocazione.
Non si è reso protagonista dell’impegno missionario, non si è proposto come idolo o come leader, ma ha fatto trasparire in tutto il volto di Cristo.
In ogni occasione (anche una disgrazia, come il passaggio di un uragano) padre Ugo trovava un buon motivo per far emergere il positivo; sapeva intuire il “percorso della fede” che progressivamente si svelava nei fatti. Come in un articolo scritto da Haiti per L’Avvenire di Calabria e pubblicato sul numero del 6 luglio 1996: «I padri lavorano in condizioni di grande povertà personale e di mezzi. La fede, l’ottimismo e la calda accoglienza della gente ricompensano largamente il duro lavoro». Questo modo di leggere i fatti è stato determinante anche durante gli anni spesi a favore della chiesa reggina, lo dimostra il proliferare di iniziative a favore della pastorale familiare in un contesto storico in cui la famiglia era ritenuta veicolo di altre appartenenze, per niente legali, anzi nocive.
Su tutte, il pellegrinaggio mariano delle famiglie. Un’idea stravagante, però efficace: camminare per le vie di Reggio andando controcorrente, pregando, visitando i luoghi della sofferenza, giungendo nella “casa” della madre di tutti i Reggini: l’Eremo.
Per padre Ugo la famiglia non era soltanto la “culla” della fede, ma anche il luogo in cui cresceva e si sviluppava la responsabilità personale di ciascuno. “Individuo” era il suo modo affettuoso di chiamare gli amici più cari, una parola utilizzata per ricordare l’unicità ma anche la responsabilità dei suoi interlocutori.
Anche durante la malattia ha continuato a educare, magari a distanza, ma in maniera sempre presente. Non si è arreso alla sofferenza del corpo e, nonostante la mobilità ridotta, ha continuato a viaggiare, incontrare, celebrare e raccogliere lacrime. La sua ostinata voglia di trasmettere la fede gli ha permesso di spezzare pane e parola per tutti i suoi amici, fino all’ultimo respiro della sua esistenza.
Oggi ci resta il ricordo affettuoso della sua presenza, della sua parola e della sua testimonianza.
Nel suo testamento c’è una miniera di spiritualità, costruita con l’esperienza di chi non si è mai risparmiato e ha saputo cogliere ogni occasione buona per annunciare Cristo crocifisso e risorto.
La ricchezza dei riferimenti biblici trasmette una grande verità: padre Ugo è stato prima di tutto un uomo di preghiera.
Dall’inginocchiatoio, dalla sua Bibbia consumata e ricca di sottolineature, scaturiva ogni gesto, parola e scelta. Ci ha portati nel cuore della sua preghiera, custodendoci fino alla fine.
Che grande dono essere stati amati così.
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