Un anniversario senza celebrazioni questo quarantesimo della legge 194: non sta passando del tutto inosservato, ma poco ci manca. Questa omissione dà nell’occhio: salvo qualche scaramuccia nei paraggi del 22 maggio – data che nel 1978 vide l’entrata in vigore della legge – l’anniversario sta filando via senza una vera riflessione, indispensabile tuttavia se si considera che l’applicazione di alcuni commi di quella legge ha impedito la nascita di sei milioni di italiani, tanti sono gli aborti conteggiati da allora nelle annuali relazioni al Parlamento sulla sua attuazione.
A nessuno può sfuggire che in un Paese nel quale le nascite fanno segnare ogni anno nuovi record negativi quei “non nati” per scelta di chi li ha concepiti, ma ancor prima per concessione dello Stato, sono altrettante persone che non ci sono, vite umane con la stessa dignità e gli identici diritti di chiunque altro ma alle quali non è stato permesso di venire al mondo per portare la loro irripetibile presenza. Vita persa. Possibile che, comunque la si pensi in materia, questo fenomeno non si imponga alle Istituzioni con la sua imponenza numerica, sociale, etica e demografica come un nodo ineludibile davanti al quale fermarsi per una doverosa, laicissima riflessione? Nell’era della “nuova politica” e dei “cittadini al potere” quello che ci riguarda più da vicino è semplicemente rimosso, come cosa che non ci riguarda. Tutto “privato”? Ma la 194 non era stata voluta e approvata proprio per rendere “pubblico” un dramma che rischiava di consumarsi tra solitudine, indifferenza e clandestinità? La 194 è stata fatta digerire agli italiani come un male necessario, ma ora tacendone gli effetti la si fa passare per un diritto acquisito, intoccabile, come la pensione, la scuola o la sanità. È un diritto spegnere la vita nel grembo della madre? Diamoci la libertà di parlarne, almeno. A questo deragliamento culturale stanno cercando di opporsi le iniziative controcorrente che in alcuni comu-È ni vedono voci perlopiù sparute proporre mozioni per affermare che una comunità civile deve decidere da che parte stare: se con la vita, e dunque mettendo in campo tutto il necessario per tutelarla e promuoverla alla luce della semplice evidenza che ormai è un bene scarsissimo, oppure evidentemente con il suo contrario. È così innominabile il semplice, umanissimo, civile, laico “diritto alla vita” da non poterne fare oggetto di una pubblica discussione e di un voto il più largo possibile perché ogni comune abbia la possibilità di dirsi e di essere nei fatti “amico della vita”? In un tempo di paradossi, la negazione di questa chance storica nei 40 anni della legge 194 sarebbe il più clamoroso abbaglio ideologico nel quale chi ci amministra, e noi cittadini, potremmo cadere. La vita chiama la politica e la società a una scelta di campo, adesso. Si tratta di decidere, e prima ancora di parlarne, finalmente senza pregiudizi. Se non ora, quando?
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