Dedicare tempo ai sacerdoti è un tratto di carità e di stile a cui Chiesa non può pensare di rinunciare neppure per un istante. Essa, infatti, vive del loro tempo: tempo gioiosamente promesso, per lo più nel vigore della giovinezza, e poi generosamente donato, spesso ben oltre i limiti dell’età. Il papa Francesco mostra di tenere molto a questo atteggiamento della Chiesa nei confronti dei sacerdoti. Lo fa in modo diretto, concreto, convinto. Lascia da parte i toni spiritualistici e declamatori, e sta sul terreno della loro esistenza concreta e del loro ministero essenziale. Entrambe, l’esistenza e il ministero – quando sono sinceramente dedicate – portano una fatica molto speciale, difficile da comprendere per gli altri. E spesso, non ben decifrata dai preti stessi. L’omelia del Papa è diventata celebre come predica sulla 'stanchezza' del sacerdote.
Potrebbe sembrare una stravaganza. Non lo è. (A dire il vero, molti si stanno esercitando un po’ troppo ambiguamente su questa 'stravaganza' del linguaggio papale. Ne parleremo un’altra volta).
La meditazione tenuta nella basilica del Laterano è apparsa al tempo stesso di grande immediatezza e di grande forza. La perdita dell’immediatezza, e quindi dell’autentica forza della Parola, è il difetto peggiore della lingua dei preti. Ripetiamo le nostre gergalità teologiche (quelle di ieri o di oggi, non importa) come se il cristianesimo fosse appiccicato alle formule. L’immediatezza, in ogni caso, non è certo quella che speriamo di ottenere adottando uno stile scomposto e mondano per intrattenere il pubblico, inconsciamente debitori della retorica mediatica e del gergo giovanile (nelle loro parti peggiori). Lo stile di Francesco, anche sotto questo aspetto, ha una sua incalzante esemplarità (uno dei sacerdoti partecipando, ponendo la sua domanda, lo ha esattamente puntualizzato).
E a proposito di clericalismo, il Papa ha ammonito che questo è «un peccato grave», che ne porta con sé molti altri: come l’ossessione del proselitismo, l’astrattezza del moralismo, l’assuefazione alla contrapposizione fra i cristiani. Il clericalismo, dunque, è un peccato. Perché? In sintesi, perché esso ci allontana «dall’amore di prima». Magari appare anche impegnato e osservante, il clericalismo. Però – come dice il Signore dell’Apocalisse all’angelo alla Chiesa di Efeso – ha abbandonato «l’amore di prima» (Ap 2, 5). E questo, prima o poi, comincia a fare i suoi danni: le cose del Vangelo si allontanano, le cose dell’organizzazione e della legge prendono il loro posto. Il «demonio entra nel portafoglio del prete», ha detto il Papa: è di lì che comincia a fare danni.
Il paradosso è che, quando ciò accade, arriva anche la tentazione di nascondere la corruzione dello spirito sacerdotale con l’esibizione di un più rigoroso moralismo: intransigente soprattutto nei confronti degli altri. E così «spaventiamo la gente», ha detto il Papa, invece di persuaderla dell’amore e del perdono di Dio. Il segno inequivocabile di questa erosione, quando ha preso il sopravvento, è facile da riconoscere. Le parole e le opere del vangelo, cioè che Gesù insegna ai discepoli a dire e a fare, finiscono per sembrarci stravaganti'.
L’andamento colloquiale e narrativo della meditazione del Papa non deve trarre in inganno. In questa meditazione – secondo il mio parere – non abbiamo ricevuto soltanto consigli ed esortazioni estemporanee sulla 'virtù' sacerdotale. In questo discorso è apparsa chiaramente una vera e propria 'visione' del sacerdozio: che lo invita energicamente a uscire dal suo assestamento – ancora largamente inavvertito – dentro la cornice della sua conquistata mondanità spirituale. Questa mondanità spirituale può anche profumare d’incenso e generare assuefazione al cosiddetto ruolo istituzionale e sociale del prete. Di certo svuota la Chiesa – e il mondo – di quel suo famoso sale evangelico che, grazie a Dio, molti preti portano senza lagnarsi continuamente, e persino fino al martirio: anche nei posti dove nessuno si sogna di ringraziare. Fuori della Chiesa e anche dentro.
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