Un’esperienza di ricreazione, meglio di ri–creazione: in parte questi mesi straordinari (uso il termine con una connotazione assolutamente neutra) possono essere così definiti. Premetto, però, che ho la fortuna di avere un lavoro che mi ha consentito di affrontare questo periodo senza il timore del futuro e di non stravolgere troppo i tempi ed i ritmi delle mie giornate. Per tanti altri, purtroppo, non è stato così: alla paura per i rischi per la salute, si è aggiunta l’angoscia per il futuro che improvvisamente è divenuto incerto, o peggio, caratterizzato dalla perdita del lavoro e delle sicurezze. Dicevo che queste settimane possono essere definite come una forma di ri– creazione.
È stato come se la nostra routine quotidiana fosse stata interrotta dal suono, inatteso, di una campanella: un segnale che ha costretto tutti a fermarsi e a ripensare il modo di vivere, l’organizzazione delle giornate, gli spazi delle abitazioni e i tempi della vita familiare.
Dunque, si è passati da una vita organizzata (troppo?) quasi sempre da altri o da altro (lavoro, scuola, palestre, anche le nostre comunità ecclesiali), ad un tempo da strutturare, anzi, prima ancora da pensare. Ci si è riscoperti, allora “responsabili”, chiamati (vocazione), cioè, a rispondere innanzi ad una situazione che ha messo in crisi tanti aspetti della vita: legami di amicizia, rapporti familiari, impegni professionali, attività ecclesiali e, soprattutto, l’esperienza di fede.
All’inizio si è corso il rischio di vivere la fede in “streaming”, passivamente, davanti ad un teleschermo, con orari e modalità scelti da altri, organizzati (ancora una volta) dall’esterno: una tentazione, oppure la naturale prosecuzione di una fede vissuta passivamente, già prima del lockdown?
Poi, pian piano, dopo una giornata comunque stancante, tra videolezioni, lavoro da remoto, riunioni su piattaforme, telefonate ai genitori non più giovanissimi ed altre varie incombenze da quarantena, magari la sera, è capitato, finalmente, di fermarsi a riconsiderare e a ri–desiderare tanti aspetti della vita che erano stati messi da parte: le persone che non si potevano incontrare, la vita della comunità che non può svolgersi con le forme consuetudinarie, e, soprattutto, l’Eucaristia! Si è, allora, riscoperto che un gesto che tantissime volte è stato compiuto quasi meccanicamente, senza disporre veramente il cuore ad un incontro così straordinario, è il centro della vita di fede e può cambiare davvero le esistenze solo se non è un momento isolato nel corso di una settimana poi caratterizzata dal “distanziamento” religioso.
Ora che sarà possibile tornare ad accostarsi all’Eucaristia siamo chiamati a riconsiderare con attenzione questo tempo particolare e a compiere un’azione di discernimento personale e comunitario che richiederà tempo e pazienza, e che dovrà necessariamente farci riscoprire la responsabilità di essere partecipi dall’azione di Dio, che continuamente ri–crea la nostra vita.
* Segretario del Consiglio Pastorale diocesano
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