Avvenire di Calabria

L'ex direttrice del carcere di Reggio Calabria Maria Carmela Longo arrestata il 25 agosto per concorso esterno con la ‘ndrangheta

Caso Longo, la difesa: «Nessun favore alla ‘ndrangheta»

Redazione Web

Share on facebook
Share on twitter
Share on whatsapp
Share on telegram
Share on facebook
Share on twitter
Share on whatsapp
Share on telegram

È durato cinque ore e si è concluso a tarda sera l’interrogatorio di garanzia dell’ex direttrice del carcere di Reggio Calabria Maria Carmela Longo arrestata il 25 agosto per concorso esterno con la ‘ndrangheta.

L’indagata, che fino a pochi giorni fa ha guidato la sezione femminile del carcere di Rebibbia ha risposto alle domande del gip Domenico Armoleo e dei due sostituti procuratori della Dda Stefano Musolino e Sabrina Fornaro. Assistita dall’avvocato Giacomo Iaria, Maria Carmela Longo si è difesa dall’accusa di aver favorito boss e luogotenenti dei clan reggini detenuti nel carcere di Reggio Calabria.

«La dottoressa Longo – ha spiegato il legale – contesta di aver favorito alcuno e di aver creato un regime preferenziale. Il concorso esterno presuppone che la mia assistita avesse coscienza di favorire la ‘ndrangheta. Ma non è stato così tanto è vero che tutte le ispezioni fatte al carcere non si sono tradotte in procedimenti disciplinari. Che a Reggio Calabria ci potesse essere la possibilità per i detenuti di collocarsi in una sezione piuttosto che in un’altra è vero, ma che questo sia funzionale a favorire la ‘ndrangheta è tutto da dimostrare. La dottoressa Longo ha sottolineato, inoltre, ha sempre operato di intesa con gli organi superiori dai quali ha ricevuto assensi e riconoscenze».

L’avvocato Iaria non ha formulato al gip la richiesta di revoca degli arresti domiciliari ma «alla luce dell’interrogatorio di garanzia – conclude il difensore – il prossimo passaggio sarà il Tribunale della Libertà dove discuteremo non solo delle esigenze cautelari ma anche della gravità indiziaria».


«I fatti del Panzera non possono rappresentare la notte fonda in cui precipita la Polizia penitenziaria e, significativamente, il Comando del Reparto di Reggio Calabria. Fuori da ogni ipocrisia di un discorso pubblico cui siamo abituati, che farebbe torto all’intelligenza del Paese e non fa onore ai trentasettemila donne e uomini che indossano con legittimo orgoglio e con la riconoscenza di tutti l’uniforme della Polizia penitenziaria, non saranno delle “mele marce” (in divisa o meno) ad oscurare il lavoro alacre, indefesso e silenzioso di chi vive la realtà carceraria reggina sulla propria pelle, senza fare sconti e nel legittimo rispetto della legge».

Con queste parole il Segretario Generale del Si.N.A.P.Pe – Sindacato Nazionale Autonomo Polizia Penitenziaria – Roberto SANTINI ha inteso esprimere la vicinanza dell’associazione al personale in servizio negli istituti penitenziari di Reggio Calabria.

«Il canovaccio pare essere liso quando leggiamo di certe accuse che hanno portato l’ex direttrice del carcere agli arresti domiciliari per concorso esterno in associazione mafiosa; fa oltremodo veramente male pensare che degli appartenenti al Corpo abbiano potuto favorire i sodalizi di n’drangheta».

Per il Sindacato Nazionale Autonomo di Polizia Penitenziaria – Si.N.A.P.Pe – dopo i recenti articoli apparsi sui quotidiani locali (ad esempio, “Carcere di Reggio: Grand Hotel per alcuni, porta dell’inferno per altri”) è un segnale decisamente positivo che la delega di questa indagine sia stata affidata dalla Direzione Distrettuale Antimafia al Nucleo Investigativo Centrale della Polizia penitenziaria.

Per Fabio VIGLIANTI e Roberto MAGRO, organi statutari dell’organizzazione sindacale in Calabria, «il Corpo della Polizia Penitenziaria calabrese è un’istituzione sana, capace di individuare e isolare il male che avvelena l’Amministrazione Penitenziaria ed alcuni sciocchi servitori. È una ottima notizia la delega al N.I.C.: per il Corpo, per chi ne onora l’uniforme e per il Paese anche se la verità è triste e non la si può più ignorare».

Per SANTINI «verrà, poi il momento, al di là di ogni ragionevole dubbio, di analizzare il male endemico dell’Amministrazione Penitenziaria, la diarchia di funzioni tra il direttore penitenziario ed il dirigente del Corpo ed il riflesso pavloviano di articolazioni regionali che interagendo poco con il “Centro” (per la visione romanocentrica dell’Amministrazione) dimenticano l’azione di impulso verso ogni singola realtà penitenziaria confondendo l’autonomia gestionale del direttore penitenziario con la tolleranza sciagurata verso chi abusa dell’arbitrio. Come se la strategia della riduzione del danno – confinare la punizione alle “poche mele marce”, aiuti a mettere in salvo l’Amministrazione sana da ciò che l’avvelena. Un monito per Bernardo Petralia».

Articoli Correlati