Avvenire di Calabria

Una testimonianza intima che narra della condivisione «fianco a fianco» col vescovo-santo

Ferro, quante ore passate nell’ascolto dei «suoi» giovani

Redazione Web

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di Raffaele Cananzi * - Sulla fulgida figura di monsignor Giovanni Ferro si è già molto detto, scritto e pubblicato. Il mio intento è quello di rendere delle annotazioni riguardanti il profilo umano e spirituale del nostro compianto pastore. Per far ciò, attingo a quanto coi miei occhi ho visto, coi miei orecchi ho udito dalla sua parola, con la mia intuizione (spero non fallace) ho potuto desumere dal suo modo d’essere e di operare marcato da aristocratica signorilità e impregnato da spirito di incommensurabile carità, cioè di amore.

Mi accingo, dunque, a rendere una testimonianza personale che mi porta giocoforza a parlare di me, non certo perché io sia sospinto da tentazioni narcisistiche da cui rifuggo, ma perché si sappia di fatti anche inediti che reputo siano utili a meglio percepire la grandezza dell’arcivescovo Ferro. Conobbi monsignor Giovanni Ferro quando, ancora ragazzo, già muovevo i primi passi nella militanza in Azione Cattolica, al tempo della frequentazione dei campi estivi a Zervò. Ebbi modo di essere più frequentemente vicino al nostro presule da quando fui rivestito di cariche in Azione Cattolica a livello diocesano. La mia vicinanza a monsignor Ferro non si interruppe nemmeno dopo aver smesso dette incombenze, sia perché ebbi altri incarichi diocesani, quale quella di direttore del Consultorio familiare succedendo nella funzione a monsignor Giuseppe Agostino, sia perché la mia professione di avvocato della Rota Romana mi dava occasione e opportunità di un rapporto di collaborazione costante, rivelatosi particolarmente intenso durante i «Fatti di Reggio»: la rivolta popolare dei primi anni ‘70.

Com’era congeniale alla sua maniera e alla sua sensibilità pastorale, monsignor Ferro seguì passo passo l’andamento, tra molte altre, della mia famiglia e quindi la crescita dei miei figli con i quali andavo a fargli visita, insieme a mia moglie, pure nei periodi delle ferie che egli trascorreva a Sant’Angelo di Melia: sobborgo dotato di una piccola cappella dove per la partecipazione alla Santa Messa radunava quanti da ogni dove vi convenivano e i residenti, orgogliosi costoro di averlo vicino e di vederlo nel corso delle giornate attorniato dai loro bambini ai quali si dedicava gioioso assumendo il semplice ruolo di catechista.

Il suo moto svelto e leggero come una farfalla conferiva alla figura dell’arcivescovo Ferro, snella alta e slanciata, un portamento ieratico e attraente. Lo ricordo silente e chiuso a lungo nella cappella dell’arcivescovado assorto in preghiera. Era lì che sovente riceveva i giovani che prediligevano avere lui come confessore e guida spirituale. Dava ascolto a tutti. Le sue mattinate in sede erano solitamente assorbite dalla teoria di persone che avvertivano il bisogno di un colloquio e di un contatto con lui. Dal suo studio ci si usciva sempre tranquillizzati e affrancati dalla sua parola, accompagnata dal suo dolce sorriso. Comprensivo nei riguardi di ognuno, ebbi la convinzione che fosse più esigente nei riguardi di sé stesso sacerdote, perché della sua personale formazione di religioso conservò perenne lo stampo originario. (1. Continua)

* Avvocato della Rota Romana

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