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Nel difficile e tormentato XX secolo, la voce di una donna, Maria Zambrano, ci ricorda che l’uomo non è tanto «essere-mortale» quanto, piuttosto, «essere-natale»
Siamo mortali, già; ma così tanto da condizionare con la nostra mortalità la filosofia occidentale. Tra tentativi di rimozione e di razionalizzazione, l’approdo nel ‘900 è quello del pensiero di Heidegger per il quale è nella possibilità della morte che sperimentiamo più autenticamente il nostro essere nel mondo. Anche Leopardi (vedi gli straordinari versi del “Canto notturno”) e Schopenhauer nell’Ottocento siglavano il loro assenso a tale concezione: l’esistenza è un perenne morire.
Eppure, sempre nel difficile e tormentato XX secolo, la voce di una donna, Maria Zambrano, ci ricorda che l’uomo non è tanto «essere-mortale» quanto, piuttosto, «essere-natale». Attraverso la ragione poetica che riconosce nel sentire la radice dell’essere e la ragione materna la cui forza generativa mette alla luce il pensiero della vita, è possibile fare filosofia in modo nuovo. All’oblio dei pensatori per la nascita e la maternità – dimenticate, rimosse, declassate – Zambrano oppone il recupero dell’esperienza naturale ed esistenziale, il recupero delle entrañas, delle viscere che insegnano, a chi vuole e sa ascoltare, il mistero generativo e il dono della nascita, anche quando esse sono memoria del dolore, di un figlio perso, di piccoli occhi chiusi per sempre.
Siamo molto distanti da Heidegger per il quale la vita è sempre un essere “gettati” nel mondo, mai una vita partorita. Ma si è «gettati» nella misura in cui si è generati e partoriti, nella misura in cui la riflessione non può prescindere dall’esperienza. Come per la pensatrice spagnola anche per Hannah Arendt «gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire, ma per incominciare». Il dare inizio, il liberare lo spazio per l’inedito, il dissodare il terreno per l’apparire della libertà che ciascun uomo è: questa è lezione antica, che viene da Agostino che Arendt conosce molto bene.
Nel «De civitate Dei» il filosofo di Tagaste ci ricorda – tra l’altro - che Dio ha creato l’uomo per immettere nel mondo la facoltà del dare inizio. Ecco l’inaspettato, l’inedito, l’altro io: prima non c’era poi c’è stato, c’è, nella sua unicità e libertà. La ragione materna, che ci invita ad esercitarci nel respingimento di ogni forma di omologazione e ad accogliere la differenza quale cifra dell’essere nel mondo, è ragione ospitante, accogliente. «Mentre avanziamo, dobbiamo imparare a fare spazio» (Luce Irigaray); mentre viviamo dobbiamo creare occasioni, generare relazioni.
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È così che la ragione materna acquista una valenza politica e, come direbbe Arendt, dimostra la propria estraneità rispetto ai totalitarismi, che soggiacciono al culto della morte e odiano la nascita e la sua imprevedibilità. È così che essa – ragione materna – ci ricorda che siamo viventi tra i viventi, accomunati tutti dall’esperienza della maternità. Forse è vero che veniamo quotidianamente e heideggerianamente “gettati” nel mondo; di certo passiamo tutti attraverso l’esperienza dell’essere generati e partoriti. È di questo che non dovrebbe mai esserci oblio ma solo gratitudine.
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