Avvenire di Calabria

La Ong ci racconta la trincea dell'Alto Jonio dove i braccianti extracomunitari cercano un po' di lavoro (anche sottopagato)

Fuga dei migranti dalla Tendopoli? InterSos: «Stanno tutti bene»

Federico Minniti

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Fuggono dal ghetto. Cinquanta braccianti extracomunitari hanno raggiunto, poche ore fa, il confine tra Puglia e Calabria: provengono da San Ferdinando con un immenso bisogno di lavorare. «A qualunque costo», ci dice Pietro Mittica, coordinatore di InterSos, organizzazione non governativa, impegnata in prima linea nell’area che va da Crotone alla Sibaritide. 

Il loro obiettivo, di concerto con le Aziende sanitarie provinciali, è quello di monitorare la salute dei braccianti extracomunitari durante il tempo della pandemia da Coronavirus. Vivono in condizioni igienico-sanitarie al limite eppure, in base ai dati in possesso di InterSos nessuno di loro ha contratto il Cov Sars 2. «Manca tanto; però pensiamo che si potrebbe iniziare anche con poco. Un esempio? Dotare i presidi in cui vivono di acqua corrente ed evitare che si debbano lavare passandosi, di mano in mano, delle taniche», spiega Mittica.

Lui coordina una squadra di volontari in cui operano anche dei medici e mediatori linguistici: è importante comunicare ai braccianti cosa sta succedendo e quanto sia importante assumere un atteggiamento responsabile. Per il proprio benessere e quello dei loro compagni.

Dicevamo dei nuovi arrivi. Sono scappati dalla Piana di Gioia Tauro perché hanno saputo di una richiesta di manodopera per la raccolta delle fragole. Sanno benissimo che saranno sottopagati, ma non hanno un’altra chance. Così un pullman con a bordo 50 braccianti stranieri ha raggiunto l’area dell’Alto Jonio della Calabria.

Il nord della Calabria non è abituata a registrare insediamenti massicci di immigrati occupati nelle campagne, come invece accade a Foggia o San Ferdinando. I braccianti sono perlopiù di passaggio. «Tantissimi tornano a rinnovare i loro documenti a Crotone - spiega Mittica - poiché il loro primo approdo in Italia è stato il Cara di Isola Capo Rizzuto». Ma con la chiusura dei confini regionali determinata dai Decreti del Presidente del Consiglio, il loro andirivieni è stato bloccato.

Dpcm, termine sconosciuto a tantissimi italiani prima della crisi scatenata dal Coronavirus, adesso è familiare anche nelle baracche di fortuna degli extracomunitari. Per loro è sinonimo di fame: nessuna possibilità di spostarsi per lavorare, zero introiti. Si sopravvive, molto peggio di come si fa di solito.

«Sono ancora molto più chiusi - ci dicono da InterSos - perché stanno pagando l’impossibilità di muoversi a caro prezzo. Molti di loro devono mandare i soldi alle loro famiglie, ma non ci riescono». Per questo l’appello lanciato da Papa Francesco riecheggia ancora più forte da queste parti. Gli attivisti della Ong lavorano fianco a fianco coi sacerdoti della zona e le Caritas. Con loro si riesce a mappare il territorio e arrivare all’incontro anche coi più riottosi. Un fatto fondamentale per provare a censire quanti più immigrati e capire il livello di contagio da Covid-19. 

Un lavoro costante nel tempo. «Durante il lockdown, la diocesi di Oppido Mamertina-Palmi si è spesa in un grandissimo supporto sociale», spiega don Nino Pangallo, responsabile del progetto “Costruire Speranza” della Caritas calabrese, «bisogna anche tenere presente come tantissimi senza fissa dimora si siano rifugiati nella tendopoli, aumentando anche il numero delle persone presenti». «Riconoscere i diritti a questi lavoratori - conclude don Pangallo - rimane l’unica via per impedire che questi non finiscano inesorabilmente nelle mani di caporali senza scrupolo. Sulla loro vita, però, non occorre fare una battaglia politica. Altrimenti rischiamo di perdere tutti».

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