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“Nella malattia, ogni cura che diamo agli altri rafforza la nostra fiducia nella presenza e nella fedeltà di Dio”. Lo sottolineano i vescovi e gli abati territoriali della Svizzera nel messaggio diffuso in vista della Giornata svizzera del malato che tradizionalmente viene celebrata la prima domenica di marzo (quest’anno il 2). Nel testo, firmato da mons. Markus Büchel, vescovo di San Gallo, i presuli evidenziano che “la vita impone dei limiti a tutte le possibilità mediche, per quanto prodigiose”. “La Chiesa cattolica – ricordano vescovi ed abati elvetici – celebra quest’anno un cosiddetto ‘Anno Santo’ e ci invita a diventare ‘pellegrini della speranza’. La Parola di Dio ci accompagna in questo cammino e, attraverso San Paolo, ci offre un messaggio molto incoraggiante, ‘la speranza che non delude’ (cf. Rm 5,5)”. “Tale speranza ci irrobustisce nei momenti di difficoltà. Sono parole di reale consolazione”, commentano, osservando che nelle situazioni di sofferenza “avvertiamo il bisogno d’un sostegno più grande di noi: ci occorre l’aiuto di Dio, della Sua forza e tangibile presenza. Gesù invia i suoi discepoli (cfr. Lc 10,1-9) e li incarica di dire ai malati: ‘Il regno di Dio è vicino’”.
“Li aiuta a riconoscere anche la malattia dolorosa come un’opportunità di incontro con Lui”, spiegano i presuli: ” Questa promessa di Gesù aiuta i malati a scoprire nella fede una forza che li sostiene nei momenti difficili e di sofferenza. I discepoli inviati da Gesù diventano messaggeri di questa speranza, che si fonda sulla croce e sulla risurrezione di Gesù. È l’áncora che, al di là della sofferenza e della morte, promette la pienezza di vita”. “Ogni malattia, e in particolare ogni malattia grave o menomazione duratura, persino il transito verso la morte, può essere partenza. Partenza che mi invita a lasciarmi alle spalle ciò che mi è familiare e ad accettare ciò che è insolito e spesso indesiderato”, proseguono vescovi ed abati elvetici, per i quali “Aiutare le persone ad aiutarsi” – motto della Giornata – “significa accompagnare la persona in questo percorso; accompagnarne il cammino, spesso doloroso; ascoltarla, parlarle, mostrarle affetto”. Ma è – aggiungono – “anche un modo per aiutare ad accettarsi e a riconciliarsi con sé stessi. L’accettazione di sé significa vedere ciò che in me è infelice, solitario, abbandonato o fallito: tutto ciò che in fondo preferirei non vedere”. “Uno sguardo riconciliato al proprio passato è al tempo stesso rasserenante e liberatorio. E, forse, una preghiera che giace sopita nel cuore può riaffiorare e rassicurare di fronte alla malattia”, conclude il testo: “Aiutare ad aiutare noi stessi potrebbe essere proprio un modo per aprirci, con tutto il nostro bagaglio di vita, a Dio, a quel Dio che è solidale con noi e ha un cuore per noi. Così, proprio così possiamo vivere”.
Fonte: Agensir