
Giubileo 2025: Acerenza, sabato a Tolve la celebrazione per operatori e volontari delle Caritas parrocchiali
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Alla luce di quanto sta succedendo nella Striscia e altrove, sembra chiaro che “per Israele l’obiettivo non è semplicemente proteggere il Paese, ma espanderlo”; tuttavia queste mire espansionistiche “non hanno guadagnato il consenso dei cittadini. Una netta maggioranza sostiene i negoziati con Hamas e un ritiro dell’esercito da Gaza per riportare a casa gli ultimi ostaggi”. Lo scrive p. Giovanni Sale nell’ultimo quaderno de La Civiltà Cattolica, il n. 4.194, in uscita oggi. Secondo il gesuita, da un anno “è in corso una rapida annessione di fatto della Cisgiordania, espandendo gli insediamenti israeliani, costringendo migliaia di palestinesi ad abbandonare le loro case e consentendo ai coloni di scatenarsi senza controllo”. Da fine gennaio, sottolinea, “più di 40mila palestinesi sono stati sfollati dai loro campi profughi nel nord
del territorio”. Secondo un sondaggio dell’Israel Democracy Institute (Idi), il 73% degli israeliani ha affermato di voler attuare la seconda fase del cessate il fuoco. “In questi ultimi tempi – scrive Sale -, le manifestazioni contro Netanyahu hanno ripreso forza: secondo i dati dell’Idi, il 48% della popolazione israeliana chiede le sue immediate dimissioni”. Molti israeliani pensano che Netanyahu stia conducendo una guerra per avere dalla sua parte l’estrema destra, “del cui sostegno politico ha bisogno per rimanere al governo fino alla fine, cioè per impedire che l’esecutivo crolli e che le cause giudiziarie pendenti a suo carico vadano avanti”.
In ogni caso, evidenza il gesuita, Netanyahu “sta mettendo a dura prova l’esercito israeliano, composto anche da riservisti che vengono richiamati nei momenti di pericolo nazionale”. Si tratta di persone con famiglie e aziende di cui occuparsi, che “non possono essere chiamati permanentemente a prestare servizio”. Dei circa 300mila soldati mobilitati dall’inizio della guerra, che hanno prestato servizio in media per 61 giorni (la media pre-bellica era di 25), negli ultimi tempi, soltanto due terzi si presentano quando vengono convocati. Anche perché, evidenzia Sale, “alcuni pensano che si stia conducendo una guerra più nell’interesse di Netanyahu che in quello dello Stato israeliano”. Nel 2024, inoltre, la spesa del Paese si è impennata, portando il deficit di bilancio al 6,9% del Pil e spingendo le maggiori agenzie di rating ad abbassare le stime sull’affidabilità di Israele: Paese forte sul piano militare ma con un esercito “stanco” e una società “divisa”. Nonostante la protezione Usa e i propositi di “fare piazza pulita di Gaza e di occupare la Cisgiordania e non solo, in realtà – conclude l’analista – oggi Israele si ritrova ad affrontare una delle fasi più complesse dalla creazione dello Stato”.
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