Avvenire di Calabria

I piccoli e il Regno: l’innocenza tradita dai tanti Erode di oggi

I bambini vengono ancora oggi respinti, umiliati, sfruttati, feriti. Vengono strappati alla loro infanzia, costretti a migrare, a lavorare, a sopravvivere in contesti di violenza e guerra

di Davide Imeneo

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Oggi più che mai è necessario uno sguardo evangelico che sappia riconoscere i piccoli crocifissi del nostro tempo

«Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro, infatti, appartiene il regno di Dio». È uno di quei passaggi evangelici che, se ascoltato con il cuore aperto, ha la forza di smascherare la distanza tra il Vangelo e la Storia. Perché i bambini vengono ancora oggi respinti, umiliati, sfruttati, feriti. Vengono strappati alla loro infanzia, costretti a migrare, a lavorare, a sopravvivere in contesti di violenza e guerra. Eppure, a loro – e non a noi adulti – appartiene il Regno di Dio.



È una dichiarazione sovversiva, che rovescia ogni scala di valore e potere, e che rende la Giornata internazionale dei bambini innocenti vittime di aggressioni un momento non solo di commemorazione, ma di conversione collettiva e sociale. Il mondo continua a inchiodare i piccoli: bambini usati come scudi umani, bambini bombardati nelle scuole o nei campi profughi, bambini privati del di ritto al gioco, all’istruzione, alla tenerezza. Ogni loro lacrima è una ferita nel corpo del mondo. E se noi ci anestetizziamo davanti a queste immagini, la Parola di Dio non lo fa. Nella pagina del Vangelo secondo Matteo, l’evangelista narra un fatto che troppo spesso viene relegato alla pietà natalizia: la strage degli innocenti. Ma non è una storia da presepe.

È il racconto di un potere che ha paura della vita, che si sente minacciato da una nascita, da un bambino. E decide di eliminarlo, uccidendo tutti quelli che gli somigliano. È la logica perversa della violenza: colpire ciò che è fragile, debole, indifeso… per proteggere se stessi. Erode è l’archetipo di ogni tiranno, ma anche il riflesso di una parte oscura dell’umanità che non ha smesso di usare la forza per dominare. Quei bambini di Betlemme sono i primi martiri cristiani: non hanno parlato, non hanno predicato, non hanno fatto miracoli. Sono morti senza sa pere perché. Eppure, nel mistero della fede, il loro sangue innocente annuncia già la Croce. È come se il Vangelo, fin dai suoi primi capitoli, ci dicesse: “Preparatevi, perché questa sarà la sto ria di un Dio che condivide il destino dei più piccoli, che sceglie di nascere e morire dalla parte degli innocenti”. E se la strage di Erode ci appare lontana, basterebbe leggere un rapporto di una ONG, o guardare negli occhi i bambini di una periferia, per accorgerci che continua.

Cambiano i nomi dei carnefici, ma le vittime sono le stesse: picco li, invisibili, irrilevanti. Ai nostri occhi. Non a quelli di Dio. Proprio per questo, le parole di Gesù nel Vangelo di Matteo sono tra le più dure di tutta la Scrittura: «Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina e fosse gettato nel mare». Non c’è spazio per l’ambiguità. Gesù non tollera la violenza sui bambini, non giustifica, non attenua. Anzi, pronuncia una condanna radicale. Il male inflitto ai piccoli è un attentato diretto al cuore stesso di Dio. Perché in ogni bambino – battezzato o no, credente o no – c’è un mi stero di sacralità, un’icona del Figlio. E chi ne distrugge l’integrità, offende Dio.

La Chiesa, nei suoi documenti recenti e nel magistero dei Papi, ha riconosciuto con forza questa verità. Ma resta il rischio di una celebrazione sterile, se non ci lascia inquieti. Oggi più che mai è necessario uno sguardo evangelico che sappia riconoscere i piccoli crocifissi del nostro tempo: i bambini vittime di abusi nelle famiglie e nelle istituzioni, quelli educati all’odio e non alla pace, quelli cresciuti davanti a uno schermo anziché a una carezza, quelli sfruttati nel lavoro minorile o arruolati nelle milizie. Se il Vangelo non ci spinge a indignarci davanti a questo, allora non lo abbiamo capito. E se la nostra fede non ci porta ad agire – con la carità, con l’educazione, con la denuncia – allora è rimasta lettera morta.


PER APPROFONDIRE: Le violenze minano lo sviluppo dei più piccoli


Il 4 giugno non è una data da agenda. È una chiamata. A proteggere l’infanzia, a metterla al centro, non solo nei discorsi ma nelle scelte pastorali, educative, sociali. È una provocazione, perché la civiltà non si misura dal benessere dei forti, ma dalla protezione che garantisce ai più fragili. E tra tutti i fragili, i bambini sono i più preziosi. Gesù li prende in braccio, li benedice, ne fa i custodi del Regno. A noi il compito – e la responsabilità – di non essere Erode.

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