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Nel 2025, l’Italia continua a essere teatro di una tragedia silenziosa e inaccettabile: le morti sul lavoro. Nei primi due mesi dell’anno, l’INAIL ha registrato 138 denunce di infortunio mortale: il 16% in più dello stesso periodo nel 2024. Questi dati allarmanti evidenziano una crisi strutturale nella sicurezza dei luoghi di lavoro che richiede interventi urgenti e decisi. È questa la cruda e dolorosa realtà che dovrebbe scuotere le coscienze di un Paese moderno come l’Italia e che ha riportato al centro del dibattito pubblico un tema troppo spesso ignorato: la sicurezza sul lavoro.
Una strage che ha un nome e un volto, e che non può essere liquidata come una fatalità. Ogni giorno dei lavoratori rischiamo non tornano a casa. Non per incidenti stradali o malattie improvvise, ma per il semplice fatto di aver timbrato un cartellino. È una carneficina silenziosa, che non fa rumore come altre emergenze sociali, ma che rappresenta una delle più grandi vergogne del nostro tempo.
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Il Primo Maggio, giorno dedicato al lavoro e alla sua dignità, è diventato purtroppo anche un momento di riflessione amara. Non c’è molto da festeggiare quando i diritti conquistati in decenni di lotte sembrano erosi dall’indifferenza e dal profitto a ogni costo.
Le morti quotidiane nei cantieri, nelle campagne, nei magazzini e nelle fabbriche, non sono eventi isolati.
Sono il frutto di un sistema che troppo spesso mette la produttività davanti alla persona. Di subappalti a cascata, di lavori in nero, di controlli insufficienti e di norme disattese.
Sono la conseguenza di una cultura del lavoro che non ha ancora interiorizzato la sicurezza come valore irrinunciabile. Eppure, non mancano gli strumenti. La normativa sulla sicurezza esiste, e non è nemmeno tra le peggiori in Europa. Ma l’applicazione è carente, le sanzioni non dissuadono, l’impunità è quasi la regola. E il lavoro frammentato, precario, malpagato rende i lavoratori più ricattabili e meno propensi a denunciare situazioni pericolose.
Come ha sottolineato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, «la dignità del lavoro è un bene prezioso da tutelare».
Una frase che, alla luce dei fatti, deve diventare un imperativo. Serve una nuova stagione di riforme, un nuovo Statuto dei Lavoratori che includa anche chi oggi lavora per una app, chi è sfruttato da un algoritmo, chi non ha contratto, ferie, né malattia.
Serve un salto culturale, nelle imprese come nella politica, che rimetta al centro la persona. La tecnologia, se mal gestita, può diventare un caporale digitale, come scrive Domenico Marino: un’entità astratta ma spietata che spinge i lavoratori alla prestazione continua e disumanizzante.
In questo contesto, un infortunio non è più un incidente, ma la naturale conseguenza di un sistema sbilanciato. Servono azioni concrete: più ispettori del lavoro, più formazione, più investimenti nella prevenzione, meno impunità per chi viola le regole. E soprattutto, serve una presa di coscienza collettiva: il lavoro non può uccidere.
Chi lavora deve sapere che tornerà a casa. Tutti i giorni. Nel frattempo, ogni nuova croce piantata in un cantiere o in una fabbrica ci ricorda che dietro ogni sigla, ogni numero di una statistica, c’è una vita spezzata, una famiglia distrutta, un futuro cancellato. Continuare a ignorarlo non è solo una colpa: è complicità.
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