Il potere delle parabole, quando il racconto genera la fede
Non dogmi né trattati, la rivelazione passa attraverso immagini della quotidianità ribaltando le gerarchie
di Davide Imeneo
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La parabola non ha il tempo incantato del “c’era una volta”; ha il tempo urgente del “oggi”, e quel presente chiama il destinatario a decidersi
C’è un contadino che lancia il seme, un pastore che lascia il gregge per inseguire una sola pecora, un padre che corre incontro al figlio perduto: nel Vangelo la teologia prende forma nel gesto minimo, al punto che la rivelazione pare sussurrare piuttosto che proclamare. La parabola – letteralmente «messa a fianco» – è il laboratorio narrativo in cui Gesù colloca l’invisibile accanto al visibile, lasciando che l’immagine quotidiana faccia da lente al Regno. In un’epoca in cui molte retoriche religiose tendono all’enunciazione dogmatica, questa scelta narrativa tradisce una volontà opposta: Dio si racconta solo se accetta di farsi racconto. Bruno Maggioni ha ricordato che «parlare di Dio esige la strada indiretta del paragone, perché non è possibile altrimenti».
Joachim Jeremias notava che la forza delle parabole nasce dalla tensione fra un realismo iperconcreto e la “sproporzione escatologica” che le attraversa: un granello che diventa albero, un pugno di lievito che fermenta l’intera massa. La tradizione accademica ne ha misurato la densità letteraria. Il corto circuito narrativo è ciò che costringe l’ascoltatore a prendere posizione; non c’è distanza neutrale. Chi ascolta è sempre in scena, nascosto fra i servi, dietro al fariseo o al pubblicano, dentro la brocca che la samaritana porta al pozzo. Il Pontificio Consiglio Biblico – a partire dal celebre documento sull’interpretazione della Scrittura – ha insistito perché la lettura resti fedele a questa duplice natura, insieme letteraria e teologica: separare analisi narrativa e annuncio significherebbe mutilare il testo.
Così l’esegesi contemporanea scommette su metodi narratologici e retorici, non per ridurre il Vangelo a letteratura ma per impedirne la domesticazione catechistica. L’efficacia di una parabola si misura nel suo «lasciare aperto», basta osservare i racconti legati alla logica dello scarto. Il samaritano ritenuto eretico diventa eroe morale; l’ultimo arrivato nell’ora undicesima riceve il salario dell’intera giornata; un padre – contro ogni usanza mediterranea – anticipa l’eredità al figlio ingratamente ribelle. A stupire non è il miracolo, ma il ribaltamento delle gerarchie narrative. Hans Weder, in un lavoro che resta un punto di riferimento, definisce le parabole “metafore del Regno” perché smontano il senso comune, insinuando la logica di Dio dentro le categorie umane. È la stessa dinamica che il fiabesco conosce da sempre: pensiamo al rovesciamento di status raccontato da Perrault o dai fratelli Grimm.
Ma la parabola non ha il tempo incantato del “c’era una volta”; ha il tempo urgente del “oggi”, e quel presente chiama il destinatario a decidersi. L’attualità pastorale lo conferma. Nella celebrazione dei vespri per la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (25 gennaio 2024), Papa Francesco ha ricordato che Gesù risponde a un teologo della Legge con il racconto del Buon Samaritano, non con un trattato morale: la domanda su “chi è il mio prossimo” viene sciolta facendo immaginare la scena, costringendo ciascuno a entrare nella strada di Gerico. Più recentemente, in una lettera ai vescovi statunitensi, il Papa ha ripreso la stessa parabola come icona di una fraternità “senza eccezioni”. Sul piano della recezione ecclesiale, la stagione sinodale sposa questa grammatica: ascoltare le narrazioni delle comunità, intrecciare storie, lasciarsi provocare dalle ferite.
Nelle linee guida del Sinodo si parla di “camminare insieme” come di un esercizio prima di tutto narrativo, capace di trasformare le voci in un unico racconto di salvezza. In fondo, Gesù lo aveva già intuito: se vuoi che la domanda di uno diventi responsabilità di tutti, serve un racconto che si possa ri-raccontare, mutando in ogni generazione…eppure, restando identico nel proprio nucleo. Paragonate a una fiaba, le parabole mancano di un lieto fine sicuro: il campo dell’agricoltore resta mescolato di grano e zizzania, la rete tira su pesci buoni e cattivi, la festa può finire con un invitato che rifiuta di entrare. La tensione narrativa è volutamente irrisolta: l’autore scompare e la fine il lettore resta appeso. È forse per questo che, a duemila anni di distanza, le parabole continuano a suscitare nuove interpretazioni nell’arte, nella musica, nel cinema.
Ogni tempo trova il proprio riflesso nel figlio minore, nel vignaiolo omicida, nel giudice iniquo. Ogni ascoltatore, a sua volta, decide se accogliere o rimuovere la verità che quelle immagini spalancano. Le parabole di Gesù offrono la prova di quanto la letteratura possa diventare teologia senza perderne un grammo di poesia. Nel caso delle parabole, raccontare non significa illustrare un concetto, ma generarlo, farlo accadere nello spazio dell’immaginazione. È il metodo del seminatore: lanciare parole come semi, fidarsi che la terra – cioè la libertà e la volontà dell’ascoltatore – faccia il resto.
Nel tempo degli algoritmi e dei video verticali a scorrimento rapido, la fiducia nel racconto appare quasi scandalosa. Forse è proprio lo scandalo di cui abbiamo bisogno: un racconto così piccolo da poter essere ricordato a memoria e insieme abbastanza vasto da poter contenere l’universo.
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