Dalla Calabria all’Africa: «L’impresa come missione»
Intervista a un giovane imprenditore originario di Taurianova che ha scommesso sul bene comune. Fra missione e testimonianza, il sogno di Kevin Pratticò è realtà da oltre dieci anni.
L’attuale momento di crisi marca irrimediabilmente una separazione da vecchi frame concettuali offrendo spunti interessanti per provare ad attribuire significati nuovi alla dimensione della cura e del con-vivere sociale dei nostri territori.
La società civile, nella sua pluralità di soggetti, dovrà interrogarsi su quali strumenti interpretativi e strategie adottare per rilanciare le communitas locali.
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Gli squilibri del mondo contemporaneo “si collegano con quel più profondo squilibrio che è radicato nel cuore dell’uomo” (GS 10). Nonostante il progredire delle ricerche scientifiche ed una maggiore diffusione del benessere nel mondo, in tanti ambiti, restano ancora senza risposta gli interrogativi più profondi sul dolore, sulle ingiustizie, sulla dignità calpestata della persona, sul senso dell’esistenza, sui diritti fondamentali in più parti conculcati.
I processi di secolarizzazione e di globalizzazione in atto hanno generato nel nostro tempo un depauperamento non solo dei valori cristiani ma anche del senso religioso ed etico della vita.
Nel difficile momento storico che stiamo attraversando, caratterizzato da forti mutamenti economici, socio-culturali-politici e religiosi, è urgente ripensare coraggiosamente a nuovi modelli culturali, con l’obiettivo di rifondare eticamente ogni forma dell’agire umano.
Consapevoli che - sotto molti aspetti con dolore - ormai abbiamo voltato le spalle ai tempi della cristianità, in cui tutto si dava per scontato o in cui tutto era accolto per tradizione, oggi dobbiamo fare i conti con le esigenze imposte dalla cultura moderna. Certo, senza farci imporre da questa i tempi e i temi.
È indubitabile, però, quanto questa consapevolezza di attenzione alle realtà che nella società si agitano necessiti tuttavia di un cambio di prospettiva, di paradigma. Occorre allargare il proprio sguardo a un modo nuovo di interpretare la realtà cogliendo alcuni segni del nostro tempo, almeno quelli più positivi e, seppur con un vocabolario mutato, non così dissimili da quelli della stessa ‘tradizione’.
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Difatti, il problema più difficile, oggi, sembra quello della interpretazione del presente, ossia della storia in cui viviamo; soprattutto se si tratta di decifrare gli orientamenti che vanno verso il futuro e di fare progetti sulla base delle indicazioni che emergono dalle situazioni.
Coltivare e far crescere la capacità sapienziale del discernimento sulla storia, sui suoi straordinari cambiamenti: si tratta di “scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto” (GS 4). Oggi non si rincorrono più i grandi progetti ideali e non si offrono più scopi di vita «si manifestano dubbi verso tutte le forme dei movimenti di liberazione»[1].
Si avverte sempre più l’esigenza di un ritorno all’etica, sola capace di far recuperare alla politica il suo costitutivo potenziale umanizzante.
In questo senso l’etica diviene una sorta di campo neutro che non può essere assorbito né dalla fede né dalla politica, ma ha legami profondi con le due: dalla fede riceve nuovi impulsi, che raggiungono la politica senza alterarne i contorni, e dalla politica stimoli nuovi.
L’etica, dunque, conferisce alla politica il suo senso ultimo, la orienta al fine che le appartiene: vale a dire il servizio integrale dell’uomo e dell’intera famiglia umana.
C’è bisogno, allora, di più chiarezza e di maggior coraggio nel professare l’appartenenza alle proprie radici, proclamando l’identità di essere cristiani di fronte alle tentazioni subdole promosse da una certa politica o di fronte alle insidie tese da un laicismo pseudo-religioso che si è radicalizzato nella cultura del nostro tempo.
È su questo crinale che si gioca il futuro dell’impegno della società civile, ovvero nella capacità di scrutare il tempo, il «qui e ora», per essere anima propulsiva.
I “segni dei tempi” andranno allora scrutati per ricercare nella concretezza delle situazioni storiche le vie di accesso della parola di speranza del Vangelo. Questa speranza è “teologale”, è frutto della promessa nella quale Dio si dona e si comunica come vicino al cammino dell’uomo e in difesa della sua dignità.
I segni dei tempi non sono solo minacciosi, non dobbiamo chiudere gli occhi alle tante manifestazioni di amicizia, di solidarietà, di carità fraterna, di volontariato che sono un vanto, il fiore all’occhiello di questa amata comunità ecclesiale che è la Chiesa.
Dentro questa speranza viva, i cristiani sono chiamati ad una spiritualità della responsabilità rispetto alle faccende del saeculum, ad una spiritualità dell’immersione nel mondo, senza creare inutili schizofrenie tra “sacro e profano”: è la spiritualità del quotidiano e del feriale, nella quale l’impegno secolare è la forma ordinaria di obbedienza a Dio, ed esercizio del proprio dovere verso il prossimo e verso Dio: “il distacco, che si costata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverato tra i più gravi errori del nostro tempo (…). Non si vengano ad opporre, perciò, così per niente, le attività professionali e sociali da una parte, e la vita religiosa dall’altra”[2].
Ma veniamo ad alcune questioni, tutt’ altro che interrogative retoriche. Come affrontare per esempio la quarta rivoluzione industriale? Siamo pronti ad interpretarne il nuovo impatto economico e le relative implicazioni di carattere etico? Con quali strumenti? Alcune domande di un fenomeno ben più articolato e complesso. Di fronte alla quarta rivoluzione di inizio secolo, che tende a superare una lettura unicamente strumentale dell’uso delle tecnologie, tipica della Terza Rivoluzione, siamo pronti a mettere in atto modalità nuove adattive rispetto a pattern culturali e mappe cognitive delle persone significativamente modificati? Sapremo declinare il tema della digitalizzazione secondo una prospettiva di umanesimo?
Ecco, dunque, alcuni primi segniche interpellano il variegato mondo della società civile: adoperarsi per prepararsi alla digitalizzazione della socialità. La digitalizzazione non ha cambiato solo i modi di produzione; anche i modi di regolazione dei rapporti d’ora in poi saranno diversi e diverso sarà il modo di definire il principio di verità.
Crediamo non sia più rinviabile il tema di una visione strategica sulle tematiche digitali: quali competenze per rispondere in maniera inedita a nuove forme di povertà e vecchie fragilità?
Un’ altra sfida riguarda l’attuale organizzazione interna del lavoro.
È importante superare una concezione tayloristica del lavoro a vantaggio di un modello olocratico (termine coniato da Brian Robertson) che punta a ribaltare il modello di autorità proprio del prima sistema fornendo alle nuove organizzazioni l’opportunità di trarre vantaggio dalle competenze dei suoi componenti in un modo altrimenti impossibile. Questo nuovo imprinting potrebbe finalmente superare alcuni vizi, ben riassunti nel motto: è così che l’abbiamo “sempre fatto”.
Queste prime sfide, brevemente enunciate, ci proiettano ad essere parte di una “società civile avanzata”.
Contro il tentativo, in voga in questo periodo, di una ristatalizzazione della società civile, è opportuno adoperarsi per ribadire con forza la necessità di una terza via, che si colloca tra statalismo e mercatismo: la sussidiarietà circolare, principio fondamentale, per noi cattolici, della Dottrina Sociale della Chiesa.
In questa prospettiva nuova, si inserisce il tema dell’innovazione nei suoi molteplici aspetti, includendo le politiche del lavoro, le politiche urbane e le politiche sociali.
Crediamo si possa inaugurare una grande stagione di innovazione centrata per esempio sui beni di comunità, intesi come nuove forme di governance partecipata a base territoriale che non solo costituiscano una terza via tra statalismo e mercatismo, ma che aprano spazi concreti di esercizio di corresponsabilità democratica.
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Solo un’operazione di innovazione culturale ed istituzionale del nostro welfare potrebbe aiutarci a sfuggire da operazioni meramente ragionieristiche, di vincolo finanziario, con i quali peraltro dovremo fare i conti.
Dobbiamo essere in grado di coinvolgere tutte le soggettività sociali per fare comunità nei territori. Senza progettazione sociale, partecipata e locale, non c’è prospettiva; la prospettiva sembra quella di pensare al terzo settore in chiave generativa e quindi inclusiva.
In ultima istanza si ritiene opportuno avviare nuovi processi partecipativi dal basso con l’intento di riprogettare servizi di welfare e promuovere una nuova economia con la comunità che favorisca una reale giustizia od omogeneità sociale.
Senza un nuovo “patto di fiducia” fra cittadini, società civile, nelle sue forme organizzate, e Istituzioni rischiamo di “subire” cambiamenti culturali ed economici.
È giunto il momento di reclamare per sé un sano protagonismo per scongiurare lo spettro di un passato avvezzo a considerare, in più circostanze, la società civile ancella dello Stato!
* Marino Pagano, giornalista, saggista, docente - Angelo Palmieri, sociologo
[1] J. Ratzinger, La via della fede, Milano 2005, 15.
[2] Ibidem, 43.
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