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Un incontro toccante e intenso quello vissuto ieri all’Hospice “Via delle Stelle” di Reggio Calabria: un tempo per riflettere e per dare voce ai tanti interrogativi che il tema del fine vita suscita, nella quotidianità delle cure e nella profondità dell’animo umano.
C’è un tempo per fare silenzio e un tempo per dare voce. Ieri, nel nostro Hospice, amministrato dal dottore Vincenzo Nociti, presidente della Fondazione “Via delle Stelle”, sono stati vissuti entrambi: un tempo per ascoltare, per riflettere, per lasciarci interrogare. È stato monsignor Francesco Savino, vescovo di Cassano all’Jonio e vicepresidente per l’Italia Meridionale della Conferenza Episcopale Italiana, a guidarci in questo spazio sospeso tra il sapere e il sentire, tra il personale e il professionale.
Un tempo prezioso, dedicato a un tema di etica del fine vita che attraversa la nostra realtà ogni giorno, anche quando non viene nominato: quello dell’eutanasia e del suicidio assistito, trattato nell’ambito della formazione continua interna dell’equipe multidisciplinare dell’hospice, a cura della responsabile della formazione, dottoressa Francesca Arvino, insieme al gruppo di lavoro dedicato, costituito dalla direzione sanitaria, dalla direzione del personale e dal coordinamento infermieristico.
L’incontro di formazione è stato popolato da parole cariche di significato, che portano con sé domande profonde, spesso scomode, ma inevitabili. Le sentiamo risuonare nei dibattiti pubblici, nei titoli dei giornali, nei corridoi della politica. Ma in cure palliative le ascoltiamo con un altro timbro: quello sommesso, eppure nitido, di chi soffre. Di chi chiede aiuto, o forse solo comprensione. Di chi non chiede di morire, quanto di essere visto, ascoltato, accolto nella sua fragilità e nella sua sofferenza.
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Monsignor Savino non è venuto per dare risposte definitive. È venuto per abitare con noi interrogativi complessi e delicati, e lo ha fatto con un linguaggio che ha saputo tenere insieme l’umano e lo spirituale, la parola della Chiesa e la complessità dell’esperienza concreta. Ci ha parlato con il tono pacato di chi conosce il valore del dubbio, e ci ha restituito la profondità del suo sguardo su un tema che tocca tutti: perché tutti, prima o poi, ci troveremo a fare i conti con la fragilità, con la sofferenza, con il limite.
Tra gli interrogativi posti ai presenti, quello riguardante il significato profondo dell’accompagnare: «Qual è il nostro compito quando una persona – consumata dalla malattia o dallo sfinimento dell’anima – ci confida il “desiderio di non andare oltre”?» «Siamo lì per sostenere la vita a ogni costo, o per custodire la libertà dell’altro?». «E cosa vuol dire rispettare una libertà che si esprime nella domanda di morire?»
Non sono questioni da trattare con leggerezza. E non esistono formule semplici. Ma ieri, in quella sala che tante volte ha ospitato i nostri confronti interni, alla presenza del presidente Nociti e del consigliere del cda della Fondazione “Via delle Stelle”, don Gianni Polimeni, si è aperto uno spazio autentico di ricerca di significato tra operatori sanitari, volontari e aspiranti volontari.
Abbiamo parlato di dignità, consapevolezza, libertà. Ma anche – e forse soprattutto – di solitudine. Perché molte delle richieste di eutanasia o suicidio assistito nascono lì: nella sensazione di essere un peso, di non avere più senso, di essere dimenticati.
Ed è qui che monsignor Savino ha posto con decisione il cuore del suo messaggio: le cure palliative rappresentano una vera alternativa all’eutanasia e al suicidio assistito. Non un'alternativa ideologica, ma concreta, quotidiana, tangibile. Un'alternativa che si fonda sull'ascolto, sul sollievo, sull’accompagnamento. Che non elimina il dolore con la morte, ma lo attraversa con la cura. Che non risponde alla sofferenza con la fine, ma con una relazione.
Le cure palliative – ci ha ricordato – non servono solo a “gestire” la fine, ma a restituire dignità al tempo che resta, garantendo che nessuno venga lasciato solo, anche quando tutto sembra perduto.
Ed è proprio in questo orizzonte che ha risuonato la domanda antica, drammatica, terribilmente attuale: «Dov’è tuo fratello?». È la voce di Dio che interroga Caino dopo l’uccisione di Abele. E Caino, nel tentativo di sottrarsi alla responsabilità, risponde: «Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?»
«Siamo noi i custodi dei nostri fratelli?» È una domanda che attraversa ogni nostra giornata in hospice. Quando una persona chiede di morire, a volte lo fa perché si sente smarrita, abbandonata, invisibile. In quel momento, più che un parere, ciò che ci viene chiesto è una responsabilità profonda: prenderci cura. Custodire. Riconoscere l’altro come fratello, come sorella, anche quando è diverso, anche quando sceglie una strada che non comprendiamo fino in fondo.
Monsignor Savino ha fatto vibrare questa parola – custodia – come una chiave di lettura possibile. Non per giudicare, ma per tornare al cuore del nostro essere umani. Custodire non significa trattenere, ma accompagnare. Non imporsi, ma esserci. Non avere potere sull’altro, ma mettersi a servizio della sua dignità.
Ha ricordato che l’accompagnamento non è un atto tecnico, ma una relazione. Che la cura è fatta anche – e a volte soprattutto – di presenza, di parole che non fuggono, di mani che restano. Che ciò che possiamo offrire, come operatori e volontari in hospice, non è solo il sollievo del dolore fisico, ma anche la compagnia nel buio, la certezza che nessuno sarà lasciato solo nel passaggio più difficile.
Ha invitato a guardare la persona nella sua interezza. A non ridurre la questione della fine della vita a un problema giuridico o bioetico, ma a rimanere nella complessità dell’umano. A coltivare la spiritualità, non come imposizione o risposta già scritta, ma come spazio interiore dove ognuno può incontrare, se lo desidera, un senso più grande, una speranza, una fiducia.
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