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(Strasburgo) Nel suo discorso per l’ottantesimo della fine della seconda guerra mondiale, Roberta Metsola, a tratti visibilmente emozionato, afferma: “Ottant’anni fa, in una scuola di mattoni rossi a Reims, a poche ore a ovest di dove ci troviamo ora, la Germania nazista firmò la sua resa incondizionata, ponendo fine alla guerra in Europa. Il mattino seguente, le armi tacquero. A Londra, Parigi e Praga, la gente si riversò nelle strade. Si abbracciarono. Cantarono. Piansero – di gioia, di sollievo, ma anche di dolore. Fu un giorno che molti temevano di non vedere mai. Dopo quasi sei lunghi anni, la guerra in Europa era finalmente finita”. “Ma per milioni di persone – aggiunge Metsola -, la pace arrivò troppo tardi. Decine di milioni di vite erano andate perdute. Tra queste, sei milioni di ebrei. Intere comunità furono cancellate. Intere generazioni spazzate via. Intere città ridotte in cenere. Molti sopravvissuti affrontarono carestia, sfollamenti e malattie. Per una generazione, il trauma lasciò il suo segno nel silenzio. Milioni di bambini in tutta Europa sarebbero cresciuti senza un padre. Le loro madri senza un marito. La guerra era finita, ma le ferite erano profonde. E per milioni di persone in tutta Europa, il 1945 non portò la liberazione, ma un nuovo tipo di oppressione. Con il rafforzamento della morsa di Stalin, una cortina di ferro calò sull’Europa, dividendo Paesi, famiglie e vite. Per gli abitanti di Varsavia e Riga, Bratislava e Berlino Est, la fine di una lotta segnò l’inizio di un’altra. E ci sarebbero voluti decenni prima che potessero essere veramente liberi”. E conclude: “All’indomani della guerra, l’Europa giaceva in rovina. Ma il suo spirito era intatto. E in tutto il continente, la gente iniziò il silenzioso e dignitoso lavoro di ricostruzione. Non solo con mattoni, ma con speranza”.
Fonte: Agensir