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Quando il conflitto diventa opportunità: la via della mediazione

Parla Francesca Chirico, mediatrice e amministratrice di un importante organismo di mediazione nato a Reggio Calabria e presente, con propri sportelli, in tutta Italia

di Davide Imeneo

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Si è appena concluso il mese della mediazione. Ma in cosa consiste questo strumento e perché può rappresentare davvero un’opportunità per trasformare il conflitto in qualcosa di positivo? Ce lo spiega Francesca Chirico, fondatrice e amministratrice di Ismed, responsabile della sede centrale di Reggio Calabria e di tutti gli altri sportelli di mediazioni dell'Istituto, sparsi in Italia.

Come descriveresti la mediazione a chi non ha familiarità con questo campo?

Se volessimo dare una definizione da manuale, la mediazione è l’attività svolta da un soggetto terzo e imparziale volta a comporre una controversia in via stragiudiziale. Ma se invece vogliamo andare all’essenza, la mediazione è l’occasione per approcciarsi al conflitto con gli altri, ma anche con sé stessi, in modo differente; partendo dai propri interessi per iniziare gradualmente a comprendere gli interessi della persona o del gruppo che ho di fronte o con cui sono in lite. Quindi, la mediazione è un’opportunità per trarre qualcosa di positivo dal conflitto.

Quali sono i valori fondamentali alla base della mediazione?

Certamente la fiducia, il riconoscimento reciproco e la compassione. La fiducia è alla base del percorso di mediazione. Inizialmente è riposta nei confronti del mediatore, riconosciuto come un facilitatore autorevole ed equidistante, presente per ascoltare senza giudicare e per aiutare a trovare una soluzione di mezzo che accontenti o, quantomeno, non scontenti troppo le parti.



E poi, gradualmente, nel corso della mediazione, la fiducia si estende agli avvocati che assistono le parti e, soprattutto, alle controparti. La facilitazione del mediatore, se fa emergere le ragioni sottostanti al fatto contingente, alla scintilla che ha fatto scattare il conflitto, spinge le parti sedute di fronte a riconoscere che ciò che le separa non è solo la lite in sé, ma è la lacerazione della relazione che si è venuta a creare nel tempo, fatta di piccole e grandi incomprensioni, di invidie, gelosie, fraintendimenti, torti subiti e, talvolta, torti inflitti. Se questo accade, le difese si abbassano, si riconosce l’altro, si comprendono le sue ragioni e si capisce anche cosa lo abbia spinto ad agire in un determinato modo nei nostri confronti. La fiducia e il riconoscimento reciproco trasformano il conflitto in compassione. Quella “ compassion” di Jung che, tradotta in italiano, include anche il rispetto e l’attenzione, cioè la capacità di riconoscere le proprie ferite e quelle dell’altro curandole allo stesso modo.

Quali tecniche o metodi specifici utilizzi per facilitare il dialogo e trovare una soluzione tra le parti?

Ci sono molti metodi e diverse scuole di pensiero nel mondo della mediazione. Personalmente, quelli a cui mi sento più vicina sono l’approccio relazionale al conflitto utilizzato a Rondine e la pratica della mediazione attraverso la comprensione metodo sperimentato da Friedman e Himmelstein. Entrambi sono metodi di trasformazione del conflitto più che semplicemente di gestione del conflitto. Mi spiego con un esempio. Immaginate la comunicazione come un muro insonorizzato: la lite funziona così, inizia con piccole parole ostili che nel tempo diventano un album di ricordi avvelenati, fatti di “tu mi hai detto” e “io ti ho detto”, tanto che spesso le parti quando arrivano al tavolo di mediazione non ricordano neppure cosa ha dato davvero origine a quell’incomprensione. Davanti a questo muro, che non consente alle parole dell’altro di penetrare, io utilizzo tre passaggi. Inizio sempre dando alle parti la possibilità di raccontare il loro punto di vista, la loro storia del conflitto; perché, quando iniziamo la mediazione siamo convinti che nessun altro possa capire il nostro dolore. Con la pratica collaborativa, lavorando insieme su quel conflitto,


PER APPROFONDIRE: Mediazione, uno strumento per evitare i conflitti


scopriamo che nessuno come l’altro è in grado di comprendere il nostro dolore. Da questo momento in poi, abbiamo aperto una breccia in quel muro insonorizzato fatto di incomunicabilità, e con il dialogo arriva anche la decostruzione del nemico, che non è più uno da annientare, ma una persona con ragioni diverse dalle nostre e con cui dobbiamo trovare una soluzione comune, condivisa e, per questo, duratura nel tempo. Quindi, dopo la prima fase di ascolto e racconto e la seconda di decostruzione del nemico, arriva la fase del diritto, che non è l’arma per far pagare l’altro a suon di codici, ma lo strumento attraverso il quale possiamo rendere praticabile la soluzione individuata insieme.

C’è una fase della mediazione che trovi particolarmente difficile o impegnativa?

Come avrete capito dalla mia lunga risposta precedente, la fase più difficile e impegnativa della mediazione è quella che va dal racconto della propria storia di conflitto all’ascolto autentico della storia di conflitto dell’altro. Senza questa disponibilità all’ascolto reciproco, la mediazione non parte e quindi non può esserci nessuno dei passaggi che ho delineato prima.

In quali situazioni la mediazione può fare la differenza rispetto ad altri strumenti di risoluzione dei conflitti?

In tutte quelle situazioni in cui esiste una relazione tra vicini di casa, colleghi di lavoro, familiari, fornitori di un’azienda o clienti. Se ci pensate, la mediazione civile e commerciale in Italia è stata introdotta ed è prevista come condizione di procedibilità della domanda giudiziale (è obbligatoria, per dirla più semplicemente) proprio in quelle materie che presuppongono rapporti di lunga durata: condominio, diritti reali, divisione ereditaria, rapporti d’opera, contratti, solo per fare qualche esempio. Questa disponibilità a trovare una soluzione condivisa, che tenga conto delle reciproche identità, storie e interessi, non trova spazio in altre forme di risoluzione delle controversie come la negoziazione assistita o l’arbitrato e neppure nel giudizio ordinario, perché alla base di questi strumenti c’è sempre qualcuno che decide senza l’apporto diretto e la collaborazione delle parti.

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