Avvenire di Calabria

Dall’esperienza diretta nelle aule alla formazione universitaria dei futuri insegnanti, Annamaria Curatola analizza il significato profondo dell’inclusione scolastica per gli studenti con disturbo dello spettro autistico

Autismo e scuola: «Costruire relazioni è il primo passo verso l’inclusione»

Il contributo della pedagogista dell’Università di Messina tra PEI, progetti di vita e buone pratiche: «La comunità educante deve essere il primo motore del cambiamento»

di Francesco Chindemi

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Docente ordinario di pedagogia e didattica speciale presso l’Università degli Studi di Messina, coordinatrice del Corso di Laurea Magistrale in Scienze Pedagogiche e delegata per lo stesso Ateneo per l’area “Studenti con disabilità e DSA”, Annamaria Curatola è da anni impegnata nella formazione dei docenti e nel sostegno scolastico. In questa intervista approfondisce il ruolo della scuola nella costruzione di percorsi di vita per gli studenti con disturbo dello spettro autistico, tra buone prassi, ostacoli e prospettive concrete.

🎙️ Puoi ascoltare il contributo della professoressa Annamaria Curatola anche nell'ultimo episodio del nostro podcast Good Morning Calabria dal titolo "Autismo in Calabria, fra diritti, scuola e futuro". Qui la puntata 👇

Professoressa, cosa significa oggi parlare davvero di inclusione scolastica per un alunno con disturbo dello spettro autistico?

In generale, è il concetto di inclusione che fa la differenza rispetto a tutto il resto, ovvero quel concetto che implica la partecipazione attiva da parte di tutti e quindi il coinvolgimento da parte di tutti. Il coinvolgimento vuol dire che già dall'atto della progettazione scolastica gli insegnanti devono pensare ad abbattere qualsiasi barriera, sia essa legata a fattori culturali, comunicativi, linguistici o sociali, che possa impedire a tutti gli studenti di partecipare in maniera attiva alla vita di classe.



Con l'autismo c'è una sfida molto importante, perché sappiamo che gli studenti con questa sindrome hanno molte difficoltà nelle relazioni e nella socializzazione con l’altro, e quindi è importante che gli insegnanti puntino soprattutto su questi aspetti.

Quindi, conta più la relazione educativa rispetto alla programmazione didattica, o si dovrebbe procedere su entrambe?

Si dovrebbe assolutamente procedere su entrambe. Pensare l’inclusione significa coinvolgere, e spesso questo non avviene all'interno della scuola, perché si punta più sulle autonomie personali e quindi su un lavoro uno a uno nella pratica didattica, piuttosto che pensare seriamente al coinvolgimento dello studente all'interno del contesto classe. Quindi, bisognerebbe progettare attività in Cooperative Learning, attività di peer tutoring, attività che vedano effettivamente questo coinvolgimento laddove è possibile.

Quali sono gli altri strumenti?

Oggi abbiamo il nuovo PEI (Piano Educativo Individualizzato), documento progettuale per gli alunni con disabilità. Già il PEI nasce come progetto di vita per lo studente con disabilità all'interno della classe, a partire dal DPR 24 febbraio 1994, dove i singoli operatori che redigevano questo documento dovevano integrare i propri progetti di socializzazione, di contatto pedagogico e scolastico, proprio per la presa in carico globale dello studente con disabilità. Lo stesso concetto è stato ripreso dalle linee guida per le persone con disabilità, in particolare per gli studenti con disabilità, del 2009, dove si parla di progetto di vita come quel progetto che va oltre il periodo scolastico, ipotizzando l’orizzonte di un futuro possibile e che quindi deve essere condiviso tra le parti.


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Quando si parla di futuro possibile, non si può fare a meno di pensare alle parole di Mario Tortello — pedagogista, filosofo, giornalista — quando diceva: «Attenzione insegnanti, quando progettate pensatevi adulti», da cui il famoso motto: «Pensami adulto», proprio perché l’intervento deve prevedere un’azione che va oltre il qui e ora, pensando a cosa queste persone possono fare e realizzare al fine di migliorare la loro qualità della vita e di avere un ruolo sociale.

A livello pratico, come si traduce questa idea di progetto di vita all’interno del PEI?

Abbiamo alcuni punti del nuovo PEI: per esempio, la sezione 3 invita alla collaborazione con il Comune di residenza dello studente, perché il progetto di vita elaborato dalla scuola sia collegato con il progetto individuale ai sensi della legge 328 del 2000, articolo 14: ovvero quel progetto che viene richiesto dalla famiglia o dalla persona con disabilità, che consente di mettere insieme tutti quei servizi, anche risorse economiche, per sostenere la persona nel proprio percorso. Il progetto individuale del Comune e il progetto di vita della scuola devono coordinarsi e avere lo stesso fine, lo stesso obiettivo. E questo, il nuovo PEI lo consente. Purtroppo però, spesso questa "famosa" sezione 3 viene lasciata in bianco e non compilata.

E questo a cosa è dovuto, secondo lei?

Sicuramente c’è una scarsa informazione sul tema. C’è molta confusione, perché il progetto individuale spesso viene confuso dagli operatori del Comune con il progetto di vita indipendente, che è altra cosa: ovvero, progetti per i quali si risponde a un bando pubblico, destinati alla persona con disabilità certificata e in possesso dell’articolo 3, comma 3. Cosa diversa è il progetto individuale, perché è un progetto per il quale basta avere soltanto la certificazione 104. È uno strumento fondamentale e un diritto della persona con disabilità averlo e vederlo realizzato. Purtroppo, anche quando si riesce a ottenerlo, sono tante le lotte che le famiglie devono affrontare, e a volte anche quando il Comune dà risposte positive, questi progetti finiscono per essere solo una sommatoria di servizi, non attenti alle reali esigenze della persona. Conosco diversi casi di famiglie che hanno ottenuto il progetto individuale, ma che è rimasto chiuso, sigillato in cassaforte e mai realizzato.

Guardando al caso di un ragazzo con disturbo dello spettro autistico che ha appena concluso il ciclo di studi — a basso funzionamento — quale prospettiva effettiva di realizzazione nel contesto sociale può avere?

La sindrome dello spettro autistico comprende un’ampia gamma di manifestazioni, e per prima cosa bisogna inquadrare la persona dal punto di vista diagnostico: capire qual è il potenziale cognitivo, la gravità del problema, e intervenire con azioni personalizzate. Se c'è un disturbo intellettivo, allora bisogna puntare su un progetto di vita basato su obiettivi pratici, sulla memoria di lavoro, sulla ripetizione, su attività laboratoriali. Se invece la persona ha un autismo ad alto funzionamento, con uno sviluppo cognitivo nella norma o superiore, allora il discorso cambia radicalmente e si possono inserire obiettivi di natura pragmatica e relazionale. Penso che le parole chiave siano continuità e orientamento. Continuità verticale tra i diversi ordini scolastici e continuità orizzontale tra le varie istituzioni coinvolte. E poi orientamento: senza una guida chiara, qualsiasi progetto rischia di essere inefficace.

Ci sono esempi concreti che mostrano come un inserimento sociale possa essere efficace?

Un esempio virtuoso è Pizza Aut a Milano, una pizzeria interamente gestita da persone con autismo. È una realtà che dimostra quanto sia possibile realizzare una piena inclusione, quando c’è progettazione seria, dialogo con il territorio e responsabilità condivisa. Qualche settimana fa, la pizzeria è stata vandalizzata, ma ha riaperto immediatamente, grazie alla risposta solidale della comunità. Non è un caso isolato. Ce ne sono altri e se ne possono creare ancora, a patto che ci sia una comunità educante pronta a fare rete.

Il messaggio che vuole condividere con il mondo della scuola?

La scuola deve essere l’anello iniziale di questa catena. Obiettivi come lo stare con l’altro, la condivisione, la gestione delle emozioni e le conoscenze di base devono partire dalla scuola. Altrimenti, si arriva troppo tardi. La scuola deve essere l’anello iniziale di questa catena. È fondamentale progettare per tempo e orientare gli studenti verso scuole che possano realmente favorire la costruzione del loro progetto di vita.



In questo contesto si inserisce anche il recente Decreto legislativo 62/2024, definito da molti una svolta. «Hanno parlato di rivoluzione, ma il progetto individuale già esiste. Non c’è vera novità, se non l’aver ripreso, concettualizzato e indicato le modalità operative». E conclude: «La normativa fa ordine, è importante, ma non serve attendere le sperimentazioni. Si può partire subito, usando gli strumenti attuali, pretendendo progetti veri, non solo carte da archiviare o elenchi di servizi messi lì per forma.

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