Avvenire di Calabria

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Beni Confiscati, Nico D’Ascola: «L’Agenzia sarà potenziata»

Federico Minniti

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«Questa riforma è necessaria». Non ha dubbi Nico D'Ascola, presidente della commissione Giustizia del Senato. Avvocato e docente universitario reggino, D'Ascola è stato investito dai reclami di Reggio Calabria, con a capo l'arcivescovo Fiorini Morosini in una sua intervista su Avvenire, circa la possibilità di un declassamento della sede nella città dello Stretto da nazionale a periferica. «È vero – ammette - che al Senato è stato votato un emendamento che pone sullo stesso piano tutte le sedi secondarie dell'Agenzia dei beni confiscati». A Palazzo Madama, però, si è registrata una battuta d'arresto.

Un fatto non casuale, come spiega D'Ascola: «Da presidente della commissione Giustizia del Senato, insieme al mio gruppo parlamentare, mi sono da subito impegnato a presentare un emendamento per ristabilire la sede di Reggio Calabria come “secondaria in via esclusiva”».

Si spieghi meglio.

Si tratta di un iper-qualificazione. Vuol dire, in altri termini, che vi è un'attività di coordinamento con i vertici e non di subalternità.

Insomma quell'idea del 2010, quindi, non era così peregrina.

L'Agenzia dei beni sequestrati e confiscati alle mafie, per come immaginata nel 2010, era costituita da trenta unità comandate da altre pubbliche amministrazioni. Possiamo affermare che la legge istitutiva sanciva, di fatti, una «precarietà strutturale». Ciò ha determinato una crisi evidente di gestione: l'intenzione attuale è quella di trasformare l'Agenzia come una diretta emanazione del ministero dell'Interno.

Da cui ne deriva il trasferimento apicale a Roma?

Come sintesi è un po' semplicistica. Questo comporta un innalzamento del profilo operativo passando a ben duecento unità assegnate definitivamente all'Agenzia dei beni confiscati. Quello che si «trasferisce» a Roma è il livello direttivo presso il Viminale, ma altrimenti non potrebbe essere.

Quella sede di Reggio Calabria – come l'ha definita il senatore Giuseppe Lumia (Pd) – era quindi solo «di facciata»?

Il problema era ed è molto più grave. Questo disegno di legge pone una sfida politica: lo Stato deve distribuire benessere, non povertà e disoccupazione. E per farlo bisogna, nel Mezzogiorno, «sfruttare» a pieno il patrimonio confiscato alle mafie. Così l'Agenzia da «ente fittizio» passerà ad essere soggetto gestore dei beni sottratti alla criminalità organizzata.

Operativamente cosa cambierà?

Sinora vi era un monopolio degli amministratori giudiziari che – da professionisti privati – venivano incaricati dal giudice per gestire risorse ingenti, tra cui cospicui cespiti aziendali. Oggi, con la riforma in discussione, questa competenza potrà essere attribuita direttamente anche a un funzionario dell'Anbsc. Finalmente, quindi, verranno direttamente amministrati tutti quei beni aziendali confiscati alle mafie.

Un tema delicato, quello che tra economia legale ed economia criminale.

Si tratta di un obiettivo da raggiungere, infatti i provvedimenti di sequestro e confisca devono diventare un'opportunità economica per la collettività cosa che finora non avviene. Mi riferisco in particolare a tutte quelle aziende che, una volta finite tra le maglie della giustizia, ordinariamente cessano la loro attività. Questo cosa vuol dire? Anzitutto la perdita di posti di lavoro.

Eppure sembra che il tasto spinoso delle interdittive antimafia non sia stato toccato?

Dopo la presentazione di alcuni emendamenti appositi si era ragionato su un disegno di legge ad hoc. Un Ddl che però non è stato mai presentato in Aula.

Tra le voci che si sono alzate per «difendere» la sede nazionale dell'Anbsc a Reggio Calabria c'è stata quella dell'Arcivescovo.

Monsignor Morosini ha pienamente ragione su un aspetto: sul territorio c'è un problema serissimo di rappresentanza politica. In realtà si tratta di un'emergenza sociale: quante chance ha oggi un giovane di valore di emergere in politica, soprattutto al Mezzogiorno?

Ancor meno se lo Stato disarticola i suoi avamposti istituzionali su un territorio di frontiera. Una prima prova d'appello sarà il voto in Senato sull'emendamento D'Ascola.

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