«Iniziai il mio apprendistato criminale con furti, alcuni danneggiamenti, delle intimidazioni».
Da giovane ‘ndranghetista ad agricoltore libero
A salvarlo la pedagogia del lavoro, quello pulito, «ho potuto realizzare il mio sogno: una piccola azienda agricola».
Federico Minniti
23 Settembre 2016
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Storie di giovani e di ‘ndrangheta. Come quella di un ragazzo che dalla Piana di Gioia Tauro si trova rapidamente recluso dietro le sbarre di un istituto detentivo per minori. È un passaggio obbligatorio per quelli come lui, soggetti che hanno fatto prima a pugni con la povertà e poi con le occasioni che la vita non gli riserva, col rischio – calcolato – che le uniche concesse sono quelle del malaffare. Tutto parte da un equilibrio familiare fragile: i rapporti tra i suoi genitori – ci racconta – «si fecero sempre più tesi, fino al punto che l’unione si ruppe. Il padre emigrò in Svizzera, mentre la madre, rimasta sola con i figli, divenne la convivente di un piccolo criminale». Una chiave di volta nella ‘ndrina locale: il nuovo “papà”, a poco a poco, «cominciò a far carriera nella cosca locale, diventando il capo di un clan parentale collegato a gruppi mafiosi più grandi e forti – ci spiega – a 14 anni poca voglia di lavorare e la prospettiva di una vita avventurosa nella criminalità organizzata divenne sempre più allettante. Iniziai il mio apprendistato criminale compiendo piccoli furti, alcuni danneggiamenti, delle intimidazioni». Un’istruzione in piena regola con degli step necessari per essere “qualcuno”. «A poco a poco venni coinvolto in situazioni sempre più pericolose, fino al battesimo di fuoco quando insieme ad alcuni criminali più grandi ed esperti arrivò la prima sparatoria con una pattuglia di carabinieri durante un controllo notturno in una strada di campagna». Da ragazzo difficile a ‘ndranghetista. «Pur essendo ancora minorenne e formalmente non ancora affiliato, non volevo sfigurare ai loro occhi. Ora, però, i nemici erano due: i membri del clan avversario e le forze dell’ordine. Ed infatti furono quest’ultime ad avere la meglio quando mi arrestarono, a diciassette anni, per una rapina degenerata in un conflitto a fuoco a causa della reazione della vittima». Storie di giovani e pistole, storie da romanzo criminale. Ma anche di incontri, di rinascita. «Nel carcere minorile venni a contatto con molti altri ragazzi che come me scelsero – chi in maniera deliberata, chi meno – la strada dell’adesione all’ideologia mafiosa. Me ne accorsi subito: chi comandava era uno dei ragazzi appartenenti a famiglie mafiose ritenute più o meno importanti nel panorama criminale locale». Quella gerarchia lo manda in crisi: «I miei dubbi, sempre messi a tacere nella rigida autocensura che applicavo ai miei pensieri, riemersero più forti di prima». È la paura di morire a diciassette anni che lo lacera dentro. «Quello era il mio destino: la notte sognavo sempre la faida in corso tra la mia famiglia e quella avversaria». Nonostante questo travaglio interiore esternamente, però, decide di rimanere il “duro” di sempre. Solo un’assistente sociale lo aiuterà ad aprirsi e confidarsi: «prima della realtà mafiosa vedevo soltanto alcuni aspetti – il rispetto, la sicurezza, il riconoscimento sociale, la ricchezza economica – da quel momento cominciai a percepire anche i lati oscuri dell’essere mafioso: l’obbedienza cieca, il pericolo quotidiano, lo stress portato all’estremo, la mancanza di affetti veri, il rischio di molti anni di carcere, la morte». Questa sua presa di coscienza viene valorizzata dagli assistenti sociali del carcere e dal magistrato minorile, per cui, dopo vari colloqui, viene deciso di offrirgli un’opportunità: in attesa del processo di appello, invece di rimandarlo a casa verrà affidato a una Comunità. «Fu faticoso: ero abituato a parlare solo la lingua della violenza, mentre lì venivo trattato da uomo pensante. Per superare questo limite, andavo in giro con un piccolo dizionario tascabile – ci confida – sbirciavo di nascosto le parole nuove di cui non conoscevo il significato». Il giovane boss si sente di nuovo un ragazzo. Nell’anno e mezzo che passa in comunità comincia un’embrionale percorso di risocializzazione: inizia a svolgere alcuni lavoretti che gli impegnano la giornata e che soprattutto gli fanno ritrovare fiducia in se stesso e nelle sue potenzialità anche al di fuori dell’universo mafioso. ««Fu così che mi fidai di me stesso: dopo l’esaurimento dei vari gradi di giudizio, con un progetto sviluppato dagli assistenti sociali e dalla Comunità, ottenni dal Tribunale dei Minori la “messa alla prova”. Non ci pensai un attimo: andai via dalla Calabria per raggiungere una grande città del nord, dove mi aspettava un amico obiettore di coscienza». Dopo due anni di studio in una scuola professionale, «mi diplomai come gruista e con un posto di lavoro assicurato». Da quel momento il lavoro non gli mancherà più, e col tempo «ho potuto realizzare il mio sogno: ho messo in piedi una piccola azienda agricola, nella legalità, per poter finalmente vivere in campagna, a contatto con la natura». Ricorda gli anni del carcere e l’incontro con don Italo Calabrò. È un adulto felice, con la dignità del suo lavoro e la serenità di una famiglia vera. «Ciascuno cresce solo se sognato – ci dice in conclusione citando Danilo Dolci – contro ogni speranza, superando la logica della rassegnazione e credendo nelle grandi risorse che il cuore di ogni uomo possiede».
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