
Religiosi: Teatini d’Italia, eletto il nuovo Governo Provinciale, Guida affidata a p. Kowalczykowski
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“Ogni guerra comincia sempre con la menzogna: quella terra è nostra, quel popolo è nemico; quella religione è una minaccia. La storia non è una linea che va verso il meglio, ma va dove la facciamo andare e a noi, quindi, compete la responsabilità di vigilare”. Sono state parole chiare quelle con cui l’arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, presso la “Triennale”, ha concluso il convegno dedicato da Caritas ambrosiana e da Ipsia, Ong delle Acli, al trentennale del genocidio di Srebrenica. Un momento tragico della storia che portò alla morte di 8.372 persone (un dato ancora in forse e tanti resti a cui si cerca di dare un nome), consumatosi tra il 9 e l’11 luglio 1995 nell’enclave “bosgnacca” (musulmana) della Bosnia Erzegovina.
Dopo i saluti istituzionali del direttore di Caritas ambrosiana Luciano Gualzetti e delle Acli milanesi, Delfina Colombo, anche il presidente della Triennale, Stefano Boeri e la vicesindaca di Milano, Anna Scavuzzo hanno richiamato il dovere della memoria, contro tanti negazionismi e indifferenza.
Sconvolgenti le testimonianze portate all’assise, dalla ricostruzione della preparazione del massacro da parte di Silvia Maraone, allora giovane volontaria e oggi cooperante da 30 anni nella zona, per arrivare a chi ha vissuto sulla sua stessa pelle Srebrenica come Azra Ibrahimovic, ragazzina negli anni del genocidio e, oggi, operatrice umanitaria in Ong internazionali. “Vivevo al confine tra Bosnia e Serbia, da cui sono dovuta fuggire con i miei genitori. Mi trovavo nella città di Tuzla come profuga, con mia madre, essendo separate da mio padre e da mio fratello nemmeno 16enne. Ogni giorno aspettavamo i convogli che venivano da Srebrenica: poi abbiamo saputo che erano già stati arrestati nel 1992, uccisi e buttati nella Drina, il fiume che divide la Serbia dalla Bosnia Erzegovina”.
“Tante persone, nonostante tutto, sono tornate per cercare di ricostruire una vita normale a Srebrenica, pur vivendo a fianco di quelle tombe bianche del memoriale di Potočari con al centro la lapide su cui è inciso il numero 8.372 seguito da tre puntini perché ancora non si sa quanti siano stati veramente i morti. Oggi ci sono le case, gli abitanti, ma si percepisce la presenza dell’assenza. E quando ritornano gli anniversari, come l’11 luglio – Giornata internazionale dedicata a questo genocidio voluta nel 2024 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite -, i ponti fragili che si sono costruiti, aiutandosi magari tra vicini, cadono, perché molti negano”, spiega.
È di fronte a tutto questo che, per Delpini, occorre anzitutto usare “parole come buon senso, verità – che non si sa più dove sia – e responsabilità – che non si sa che cosa voglia dire -, con il dovere della vigilanza e del rispondere alla propria coscienza, agli altri, alla comunità locale e internazionale, alle generazioni future e a Dio”.
Inoltre, serve “prendersi cura delle vittime e invocare le istituzioni superiori”, perché, come Srebrenica ha insegnato, “se non si riconosce un punto di riferimento condiviso al quale si conferisce un potere reale, la comunità internazionale è impotente e gli egoismi nazionali, la coltivazione del risentimento e il desiderio di vendetta, si traducono nella desolazione e nell’assurdità dei genocidi”.
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