Avvenire di Calabria

In ginocchio i ventuno clan della Locride, 114 in manette (due i latitanti ricercati)

Disarticolata l’ossatura della ‘ndrangheta «originale»

Federico Minniti

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Controllavano tutto. Non c'era affare pubblico o privato che non interessasse alla 'ndrangheta nel “Mandamento” jonico, tra Locri e Reggio Calabria, zona geografica che da il nome alla maxi-indagine, coordinata dalla locale Procura distrettuale antimafia, e messa a segno dai Ros dei carabinieri con il supporto investigativo e logistico del Comando provinciale di Reggio Calabria, diretto dal colonnello Giancarlo Scafuri. Un dispiegamento immane di risorse e uomini, ben mille quelli utilizzati nel blitz degli arresti, che hanno portato a stringere le manette ai polsi di 114 soggetti (due sono attualmente latitanti, uno di essi è il ricercato internazionale Giuseppe Pelle) ritenuti organici a ventitré cosche tra le più potenti della 'ndrangheta: Cataldo, Cordì, Pelle, Nirta, Ursino, Morabito e Varacalli nella Locride, ma anche i Ficara-Latella e i Serraino nella città dello Stretto e gli Alvaro sulla Piana di Gioia Tauro. Contemporaneamente sono stati posti i sigilli a quattordici aziende di loro diretta proprietà o di imprenditori collusi.
Erano loro a «incendiare i cuori - come ha detto il generale Giuseppe Governale, comandante dei Ros – degli affiliati diffusi in tutto il mondo: dal Canada all'Australia, dalla Germania a tutto il nord dell'Italia». Erano centri microscopici come Antonimina, Natile di Careri, Sant'Ilario o Portigliola a riaffermare che la 'ndrangheta è la più grande holding criminale del mondo. Quel controllo asfittico del territorio è la prova di forza delle cosche che si tramuta in fascinazione. Così un quindicenne di Locri chiede alla figlia del boss Antonio Cataldo di far recapitare in carcere una lettera per il padre detenuto al 416bis: «Vorrei mettermi a disposizione della vostra famiglia», scrive. E il motivo di tale scelta è da rintracciare nello strapotere che le 'ndrine esercitano. Un caso esemplare è quello degli appalti pubblici. «Non esiste nessuna stazione unica appaltante che non si piegasse alle volontà dei clan – ha detto Roberto Pugnetti, vice-comandante dei Ros – sia che si trattasse degli Enti Locali, sia di strutture pubbliche complesse come Anas o Ferrovie. A lavorare c'erano sempre loro». Quelli del mandamento jonico capaci di infettare i finanziamenti europei anche su agricoltura e pastorizia. Ed ancora il controllo privatistico di soggetti pubblici come il Consorzio di Bonifica dell'Alto Jonio nelle disponibilità della cosca Barbaro.
Non solo la quota del 10% per i clan sulle Grandi opere, come il Palazzo di Giustizia di Locri o i lavori ferroviari tra Condofuri e Monasterace o sulla strada Bovalino - Bagnara, ma anche estorsioni a segni di cultura e carità come il polo archeologico di Locri Epizefiri, il centro diocesano di solidarietà “Santa Marta” o l'Ostello della Gioventù del Goel.
Un livello parallelo che si era dotato anche dei suoi tribunali per giudicare la fedeltà degli affiliati. Una caratura criminale che convince Rocco Morabito, figlio dello storico boss Giuseppe “U tiradrittu”, di poter affermare che «qua – sulla jonica - lo Stato sono io». Custodi della 'ndrangheta «originale», le cosche della Locride sono state braccate grazie all'azione dei magistrati Antonio De Bernardo, Francesco Tedesco e Simona Ferraiulo, coordinati dal Procuratore Federico Cafiero De Raho: «Visti i numeri vorrei sottolineare che non si tratta di una retata - ha detto Cafiero De Raho incontrando i giornalisti – ma di un'inchiesta che decapita i vertici delle principali cosche storiche della 'ndrangheta». Un decreto di fermo colossale raccolto in cinque libri da duemilanovecento pagine.

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