Avvenire di Calabria

Sono diverse le opere-segno di carità fondate da don Italo Calabrò sul territorio diocesano di Reggio Calabria - Bova

Come nascono le Opere-segno? Don Antonino Iachino racconta don Italo Calabrò

Abbiamo provato a conoscerne l'origine con monsignor Antonino Iachino che ha approfondito il lascito del sacerdote reggino

di Federico Minniti

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Sono diverse le opere-segno fondate da don Italo Calabrò sul territorio diocesano di Reggio Calabria - Bova. Abbiamo provato a conoscerne l'origine con monsignor Antonino Iachino che ha approfondito il lascito del sacerdote reggino per il quale si è avviata l’inchiesta diocesana per la Causa di beatificazione.

Don Italo Calabrò e le sue opere-segno, il racconto di don Antonino Iachino

Opere segno nell'arcidiocesi di Reggio Calabria, ecco il racconto di don Antonino Iachino su come sono nate grazie a don Italo Calabrò e i suoi giovani.

🎧 Ascolta il podcast 👇

Da dove nascono le opere-segno? Qual è lo spirito originale di don Italo Calabrò?

Le opere che don Italo ha avviato, fin dall’inizio, sono state sempre risposta a problematiche emergenti sul territorio e, soprattutto, alla necessità di impegnarsi per venire incontro alle persone fragili.

Non sono opere per sé stessi, ma sono risposta ai bisogni della gente. Molte di loro sono collegate con la chiusura dell’ospedale psichiatrico, ma altre sono andate incontro agli ultimi della diocesi.

C’è stato un periodo che il cortile della Curia era raduna della povera gente: molte di queste persone venivano portate in quel cortile da monsignor Ferro che andando in giro nelle parrocchie trovava qualcuno abbandonato e lo portava con sé.

E don Italo era il “braccio” che realizzava risposte a queste problematiche emergenti. In questo senso sono state chiamate opere-segno, perché sono segno dell’impegno della Chiesa nei confronti degli emarginati: bisogna intervenire sempre. 


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Una visione, quella di Chiesa in uscita, di cui oggi si parla molto. Come si è riusciti a mantenerle nel tempo?

Don Italo si è affidato molto ai suoi alunni dell’Istituto industriale “Panella-Vallauri” di Reggio Calabria dove lui insegnava religione. Per molto tempo ha invitato quei giovani a ritrovarsi nei pomeriggi per coinvolgerli in queste opere che lui portava avanti.

Così è nata l’Agape prima e, poi, per la gestione di queste opere è nata la Piccola Opera che lui ha presieduto fino alla sua agonia: ha passato la presidenza a Piero Siclari proprio qualche settimana prima della sua morte.

La Piccola Opera doveva essere l’organismo gestionale di questi servizi, affidandosi alla carità della Chiesa prima di tutto e poi anche a quelli che sono le leggi di assistenza presso i comuni e la Regione.

All’inizio ci sono stati difficoltà enormi perché non c’erano organismi capaci di dare risposte; poi piano piano, soprattutto, dopo la chiusura dell’ospedale psichiatrico sono nate tante convenzioni.

Non sempre tutto è filato liscio; ricordo un periodo di grande crisi a metà degli anni ’80. Io ero da poco diventato direttore della Caritas diocesana di Reggio - Bova succedendo proprio a don Italo e, in seguito a un suo appello, riuscimmo a raccogliere 800 milioni di lire riuscendo a risolvere tutte le urgenze dell’epoca creando anche dei fondi di solidarietà per il futuro.

A proposito di ricordi, c’è qualcosa che la lega a don Italo e all’avvio delle opere-segno fondate da lui?

Negli anni ’80, don Italo iniziò a essere presente all’interno dell’ospedale psichiatrico. Per portare avanti la sua azione fece di tutto per coinvolgere le parrocchie: io all’epoca ero parroco a Pellaro e ricordo con affetto le crispellate che i miei parrocchiani facevano per i pazienti dell’ospedale psichiatrico.

Iniziative che, oggi, sembrano “semplici”, ma che in quel periodo erano segnali di grande accoglienza verso chi viveva rinchiuso in un vero e proprio lager.

Nel mio cuore sono presenti i volti dei primi volontari delle parrocchie, appunto, che hanno reso possibili i soggiorni estivi dei pazienti dell’ospedale psichiatrico nella casa diocesana di Cucullaro. Da quelle esperienze si sono moltiplicate le nascite di associazioni di volontariato che hanno operato con coraggio sul territorio reggino.


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Un tempo profetico. Eppure oggi si fatica a incidere in quel modo. Secondo lei come mai?

Don Italo ha iniziato con opere che giustamente vengono definite profetiche. Col tempo, però, sono diventate opere sociali e per farlo ha cercato di coinvolgere in modo estenuante le Istituzioni.

Confido che quando gli subentrai in Caritas fu lui a fornirmi alcuni nominativi precisi a cui rivolgermi. Erano persone sensibili ai temi, capaci di essere collaborative e coraggiose nella loro azione politica e amministrativa.

Don Italo Calabrò ci ha insegnato a coinvolgere le Istituzioni, anzi a essere una provocazione forte per loro: i poveri devono essere sempre messi in condizione di camminare coi loro piedi.

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