Avvenire di Calabria

Ci lascia Mons. Ferrante, canonico del Capitolo Metropolitano e già parroco del Loreto. Il ricordo di chi lo ha conosciuto

Don Nicola, affezionato ai laici e innamorato del Concilio

Mons Ferrante nel ricordo della Presidente Diocesana di AC cresciuta nella parrocchia di S. M. di Loreto

Ornella Occhiuto

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“Che vuoi fare della tua vita, gioiello o spazzatura?” Giovanissima di Azione Cattolica nella parrocchia di Loreto crescevo con accanto un sacerdote già allora anziano, ai miei occhi, non tanto e non solo per un fatto anagrafico, ma per un modo, uno stile di pacata presenza, di ostinata fedeltà, di operosa dedizione, di ordinaria normalità. Di silenzio e di ascolto pronto, propri della saggezza degli anziani e dei grandi. Monsignore, come lo chiamavamo, don Nicola, è stato il parroco di tutta la mia giovinezza. Al momento di preghiera che don Demetrio e don Mimmo hanno proposto alla comunità parrocchiale la sera precedente i funerali, riascoltare alcuni brani dei suoi scritti mi ha condotto a ripercorrere i tratti della lunga stagione di servizio sacerdotale di don Nicola a Loreto che, inevitabilmente, è legata alla mia storia personale. Innamorato di Sbarre, dalla cui storia, da studioso qual era, aveva imparato ad amare gli “sbarroti”, arrivò in parrocchia in anni difficili, dopo un abbandono, e non il primo, di un parroco. Trovò e sposò una comunità ferita, “Un deserto”. All’epoca eravamo giovanissimi, io e tanti altri. Tenevamo alta la testa per la nostra libertà di stare in piazza, di saperci stare, di potere e sapere scegliere. Erano gli anni tra gli ottanta e i novanta, gli anni difficili per il mio quartiere, anni in cui si moriva per overdose. E lui era lì, prudente ma rispettoso, anzi, spesso divertito dalla nostra caparbietà. Ci guardava crescere e stava. E ha continuato a stare, attraversando stagioni non sempre facili, questioni non sempre piacevoli. E io da lui ho imparato a stare, a “mettere radici”. Lo ripeteva sempre e solo nel tempo ho capito cosa volesse dire. Eppure quelle parole erano già solide in me. Stare, rimanere, mettere radici in un territorio. Stare, rimanere fedeli all’eucaristia, mettere radici in Gesù Cristo. Poi iniziarono gli anni dell’impegno educativo in Associazione. Il suo “Fate voi” diceva la lungimiranza educativa di chi ha fiducia nel laicato, anche se giovane. Capace di una correzione pacata e mai mortificante. Fu lui a regalarmi i testi del Concilio, proprio i suoi, segnati a penna rossa e blu, con gli appunti in calce. Mi parlava del Concilio come una responsabilità che avevamo nelle mani noi laici. Di non dimenticarlo, di stare con la schiena diritta. Sempre presente, per come la sua salute glielo consentiva, ma mai invadente, mai impositivo. Solo lo spronare ad essere sempre pronti a superarsi nel servizio, a diventare migliori. E poi la sua capacità di cooperare con il laicato, il suo “Tu che dici?” di fronte alle questioni piccole e grandi che la vita di un’associazione parrocchiale continuamente propone, era la richiesta di una prospettiva altra, diversa dalla sua, che gli interessava veramente. Uomo coltissimo, studioso e appassionato dell’arte, della musica, della storia ciò non lo ha mai reso altero o distante dall’umanità dei suoi parrocchiani. I suoi passi conoscevano instancabili le storie del quartiere, le sue tante ferite. Dedicato a quei giardinari di Sbarre, dalle 6.30 del mattino apriva la chiesa, dava l’acqua alle piante e se ti trovavi a passare di là a qualunque ora lui c’era. Andava nelle case della gente, stava con gli anziani, conosceva i disabili nascosti tra le 10.000 anime della comunità parrocchiale. Ci ha educati ad andare fuori, a cercare la gente, a non chiuderci. E poi la grande gioia e il sostegno quando gli chiesero la mia disponibilità per la Presidenza diocesana dell’Azione Cattolica. Sempre accanto, disponibile, in ascolto, in silenzio, con i suoi aneddoti semplici, masticati a memoria, ma che, dopo anni, ancora mi girano in testa, frutti sapienziali di una vita interamente, veramente donata. “I sacrifici passano e i meriti restano”, “Non ti scoraggiare, vai avanti. Coraggio e avanti”. E i mille racconti legati alla vita dei santi, quelli di tutti, e quelli sconosciuti ai più, quelli calabresi e quelli che lui stesso conobbe e frequentò, da Madre Teresa di Calcutta a don Gaetano Catanoso. Parlava sempre dei santi e della santità come a una condizione determinata da cose semplici, una dimensione possibile, così come con semplicità proponeva i miracoli più grandi operati dai santi nella Chiesa: “Vi cuntu un fattu…”. E infatti lui era un prete normale. Una persona normale. Senza gesti straordinari, senza episodi eclatanti. Con una sobrietà nel parlare e nel saper tacere, nel vestire che da sola era segno. Pensavo che probabilmente si diventa grandi quando se ne vanno le persone importanti, quelle da cui hai imparato non perché hai ascoltato ma perché hai visto, quelle che hanno saputo stare al loro posto, senza sconti e senza facili entusiasmi. Con equilibrio, con fedeltà. E don Nicola era certamente per me, una di quelle. Obbediente alla vita, obbediente alla Chiesa. Questa vita donata alla Chiesa di Reggio Bova e, per tanti anni, alla comunità di Loreto Sbarre ha portato a compimento molti frutti, alcuni già maturati, tra vocazioni sacerdotali, religiose e laicali, altri ancora da coltivare. Non dobbiamo dimenticarlo, anzi, dobbiamo raccogliere ed assumere la responsabilità di custodire e raccontare questa piccola grande storia di santità sacerdotale.

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