Avvenire di Calabria

Il discernimento sia fatto bene, a partire dalla parrocchia: «Si fa spesso l’errore di confondere un avvicinamento alla fede con una chiamata al sacerdozio»

Don Scaturchio: «La conversione non sia confusa con la vocazione»

A colloquio col rettore del Seminario regionale di Catanzaro: «C’è bisogno di pensare a nuove formule formative»

Davide Imeneo

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«La chiamata alla fede non sia confusa con la chiamata al sacerdozio». Lo afferma con estrema chiarezza don Rocco Scaturchio, rettore del Seminario regionale «San Pio X» di Catanzaro. «Si fa spesso l’errore di scambiare un avvicinamento alla fede con una chiamata vocazionale, anche da parte dei parroci. Poi succede che molti giovani con una vocazione incerta, stringono una specie di alleanza col parroco: questo – magari perché indotto dallo zelo pastorale di voler avere una vocazione sacerdotale in parrocchia – forza un po’ la mano nel leggere positivamente alcuni segni che potrebbero essere validi per un orientamento vocazionale verso il sacerdozio ma che non sono oggettivamente provati».

Come si può ovviare a questa problematica?
Il tempo di verifica da vivere in parrocchia e poi, magari, in diocesi deve essere abbastanza lungo... e il parroco non deve avere fretta, deve essere un po’ più accorto. Secondo me la parola chiave è discernimento, che non va fatto solo in senso vocazionale, ma va fatto prima di tutto in senso religioso, di fede. È necessario verificare prima di tutto se si è chiamati a una ministerialialità che può anche essere laicale. Questo aspetto è molto carente nelle nostre parrocchie, dove invece c’è una forte tendenza alla clericalizzazione. Secondo me si potrebbe ovviare istituendo un anno “pre–propedeutico” a quello propedeutico da vivere in Seminario.

Cioè un allungamento dei tempi nell’iter formativo verso il Sacerdozio...
Durante il convegno per i formatori dei Seminari regionali d’Italia, che si è svolto a Cagliari la settimana scorsa, si è molto discusso di estendere soprattutto le fasi di preparazione all’ingresso al Seminario. Questo è uno degli aspetti principali, che riguarda in maniera diffusa tutta la nazione. I primi anni sono estremamente delicati, non solo dal punto di vista del percorso di fede e strettamente vocazionale. Molte volte, laddove verifichiamo che la vocazione è autentica, viene a mancare un elemento essenziale che è la disponibilità al sacrificio. Inoltre molti giovani non reggono lo stacco dai genitori, per cui dopo un mese o addirittura 15 giorni, si abbandona.

Già da diverso tempo è attivo il sesto anno di Seminario, voluto con forza dai vescovi. Che risultati avete registrato?
La “tappa pastorale” ha apportato la novità di un passaggio graduale dal momento degli studi alla vita apostolica vera e propria. Serve per avere un’idea piuttosto globale di tutte le problematiche che si andranno ad affrontare poi durante l’iter pastorale vero e proprio. Bisognerebbe programmarlo bene, rendendolo più completo con la collaborazione delle parrocchie dove i candidati al sacerdozio sono destinati.

Come immagina i Seminari fra 10 anni?
C’è bisogno di pensare a nuove formule formative. Bisogna alternare tempi di formazione in Seminario con esperienze sia nel campo lavorativo che pastorale. La formazione va affrontata da prospettive diverse. Penso che ci sia una lunga riflessione da avviare e anche delle scelte molto responsabili da assumere. Poi, immagino il Seminario come un luogo che educhi di più alla fraternità presbiterale. Questo è molto importante perché sarà, a mio modo di vedere, la carta vincente per eliminare il più grande problema dei sacerdoti di oggi: la solitudine vissuta male. Il sacerdote non può essere uno Ius Solo.

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