Avvenire di Calabria

«Una casa che cura», la ''Reghellin'' resta un episodio isolato di protezione sociale presente sul territorio

Donne vittime di violenza e il coraggio di cambiare vita

Redazione Web

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di Nella Restuccia * - Quando sei anni fa un gruppo di amici si è impegnato per dare una risposta concreta al problema della emergenza abitativa, che dai dati del Centro di ascolto “Monsignor Giovanni Ferro” riguardava diverse donne, italiane o di altre nazionalità, non pensava certo alla ricchezza di esperienze, di relazioni, di vita che la Casa avrebbe accolto, accompagnato e custodito. Circa 80 sono state le donne ospiti di “Casa Reghellin” in questi anni e diverse le loro storie.

La Casa ha visto le loro lacrime e curato le loro ferite, ma ha conosciuto anche la loro speranza di risollevarsi, le ha viste recuperare la voglia di sorridere, di comunicare, di curare il proprio aspetto fisico, in un certo senso le ha viste risorgere. Il ricordo di qualcuna di loro ci aiuterà a dare concretezza a una narrazione che altrimenti sarebbe troppo astratta e generica.

Dopo pochi mesi dall’apertura della Casa è arrivata Stefanie che portava ancora aperte le ferite di una delusione amorosa, che l’aveva spinta a tentare il suicidio. Aveva lavorato tanti anni in Normandia, mettendo a frutto le competenze acquisite con un corso di laurea in materie economiche. Rimasta sola e senza mezzi di sostentamento arriva da un ospedale della provincia reggina e inizia la sua lenta ripresa. Si riconcilia con se stessa e con la vita, finché maturata la pensione può riprendere una vita normale nella città che ormai ha imparato ad amare.

Irina è una donna russa ospitata durante le interruzioni della sua esperienza lavorativa di badante. Un giorno viene investita e neanche soccorsa dall’investitore. Dopo la lunga degenza in ospedale, durante la quale è stata assistita delle volontarie, finalmente arriva la guarigione e il rientro nella Casa dove rimane fino al ritorno in patria, da dove continua a mantenere contatti telefonici con chi l’ha aiutata quando ha rischiato di perdere la vita.

Maia è polacca, venuta a lavorare nella nostra città trova un compagno con il quale crea una famiglia. Ma a causa di conflitti familiari, per l’ingerenza di un suocero padrone, lascia la famiglia e i tre figli e viene accolta nella Casa quando già la depressione comincia a mostrare i suoi segni devastanti. La cura tempestiva di un medico specialista, che ha messo a disposizione tante volte gratuitamente la sua professionalità, ha consentito a Maia dopo un po’di tempo di ritornare guarita in famiglia, dove intanto la situazione ha trovato uno sbocco favorevole per la serenità di tutti i componenti. In questi anni molto significativa è stata la testimonianza di tanti professionisti, medici, avvocati, farmacisti che hanno messo a disposizione gratuitamente le loro diverse competenze a vantaggio delle ospiti e un segno di speranza è il contributo di tanti reggini che sostengono economicamente la casa, che vive della solidarietà di quanti condividono le finalità del progetto dell’Associazione Zedakà e lo rendono realizzabile.

La storia di Mercy riflette il dramma di tante ragazze nigeriane, sbarcate sulle nostre coste e che, dopo l’accoglienza temporanea in uno Sprar, si vengono a trovare senza casa e senza mezzi di sussistenza, con uno o più bambini da accudire. Sfuggita al pericolo della tratta, durante la permanenza nella Casa ha trovato un lavoro e una concreta possibilità di autonomia.

Un segno di speranza è anche la vicenda di Paola, fuggita da casa, da un paesino della Jonica, per sottrarsi alla violenza del marito, che la minacciava di morte e minacciava altresì i figli, se l’avessero ospitata. Con l’aiuto dei volontari ha trovato presto un lavoro come badante e dopo alcuni mesi le Forze dell’Ordine le hanno assicurato che poteva stabilirsi in un centro non lontano dal suo e lavorare. Certo non sempre si è riusciti a dare un aiuto efficace, in alcuni casi con umiltà la Casa ha riconosciuto il suo limite e affidato nella preghiera le diverse situazioni cercando di lasciare almeno il ricordo di un luogo di condivisione e di fraternità operosa.

* Casa Reghellin

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