Avvenire di Calabria

I carcerati con papa Francesco, partiti in settanta da San Pietro e Arghillà

Elogio dell’umano, oltre le sbarre

Credenti e non credenti, carcerati e polizia penitenziaria, cappellani e volontari tutti su un pullman

Redazione Web

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Eravamo in tanti a Roma per il Giubileo dei carcerati del 6 novembre, circa 70 partiti dalle carceri di San Pietro e Arghillà di Reggio Calabria. La gente comune che non sa niente di carcere a questo punto ha un sussulto, e chi il carcere lo conosce, pure. Sussulta chi pensa all’ipotesi di tanti pericolosi delinquenti in giro per le strade di Roma. Sussulta chi sa cosa può concretamente comportare una uscita tanto anomala in termini di sicurezza e burocrazia. Sussultano i parenti e gli amici dei detenuti agitati all’idea di poter vedere qualcuno “come se fosse libero”. E sussultano anche i detenuti scossi nella loro congelante routine da un’ipotesi che sembra irrealizzabile ma poi diventa concreta, se non per tutti i detenuti, almeno per alcuni: fonte di invidia e di speranza contemporaneamente. E forse è proprio questo il Giubileo dei carcerati: un sussulto. Uno scossone. Una luce abbagliante improvvisamente accesa mentre dormi e non percepisci l’esistenza di una realtà grande e sconosciuta intorno a te. Il Giubileo dei carcerati è dire in modo forte e inequivocabile che la Misericordia non ha limiti e non si ferma di fronte a nessun ostacolo. Nemmeno di fronte alla colpa. Come se anche la colpa fosse un mistero e non solo qualcosa che ti attira addosso una condanna meritata. Come se il cuore dell’uomo fosse da contemplare ed amare prima che da giudicare ed analizzare. Come se Dio fosse venuto a morire per i peccatori e non per i giusti! Credenti e non credenti, carcerati e polizia penitenziaria, cappellani e volontari tutti su un pullman. Non è mai successo ed è ragionevole pensare che non succederà mai più! Tutti su un bus come per una qualunque gita. Una preghiera, una canzone, una presa in giro, un applauso all’autista e molte soste all’autogrill. Tu hai fretta di tornare a casa, domani devi alzarti presto e vorresti arrivare in fretta. Poi pensi al domani degli altri e capisci che loro il viaggio lo vorrebbero protrarre quasi all’infinito. Si potesse viaggiare sempre per poter vivere questa stupida normalità. Tutti sul pullman a scoprirsi semplicemente uomini. Che hanno storie ed errori, sentimenti e rimpianti. Che hanno il cellulare in mano, gli occhi bassi e il dito a sfogliare menu. Ti fa quasi incavolare, questa normalità che arriva e ti travolge. Ma quando, tu libero, pensi a cosa c’è dietro quello schermo, alla stupenda possibilità di comunicare, all’ebbrezza di fotografarti e mandare la tua immagine in giro, allora benedici tecnologia e riti collettivi. E ti chiedi per l’ennesima volta: «perché lui sì e io no?» Tolte le divise (quella da polizia penitenziaria, da cappellano, da volontario, da educatore, da carcerato) rimane solo la nostra nuda umanità ed è una enorme conquista. Pare di toccarla la misericordia che alla partenza sembrava un’idea astratta e poco comprensibile. Al ritorno dal viaggio sembra a tutti noi di averla assaporata. È passata attraverso la fiducia, la vita in comune, la responsabilità, la cura dell’altro, la libertà che tutti abbiamo gustato in questi giorni. Il fatto che i miei compagni di viaggio siano stati capaci di spogliarsi dalle divise rimane nella mia mente come l’immagine plastica se non proprio della misericordia, sicuramente del suo irrinunciabile presupposto. * volontaria presso il carcere di San Pietro e Arghillà.

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