Avvenire di Calabria

Il capo della cosca di Rosarno era alla macchia dal 2010

Finisce la latitanza di Marcello Pesce

Federico Minniti

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Aveva appeso le scarpe della movida al chiodo, Marcello Pesce, detto “u ballerinu”, per la sua propensione alla danza nelle notti brave; era diventato un uomo invisibile, colto e attratto dalle letture di Proust e Sartre, suoi compagni di viaggio negli ultimi sei lunghi anni di latitanza. Ad interromperla è stata la squadra mobile della Polizia di Stato di Reggio Calabria, guidata da Francesco Rattà, su mandato della Direzione distrettuale antimafia, in un'operazione coordinata dal procuratore capo, Federico Cafiero De Raho e dall'aggiunto, Gaetano Paci. E gli uomini della mobile per tre anni hanno seguito ombre e respiri di un personaggio divenuto abilmente una primula rossa, seppur - all'alba di ieri - sia stato catturato nella sua Rosarno, assieme ai fiancheggiatori, Salvatore e Pasquale Figliuzzi. Non ha opposto resistenza quando Rattà e i suoi uomini hanno violato il suo rifugio, anzi si è complimentato proprio con il capo della mobile, confidandogli di aver riconosciuto il suo volto, «visto in tv», per via della sua attenzione alle attività di giudiziaria. La Cassazione dovrà confermare i 16 anni di condanna al capo-imprenditore del clan pianigiano. Pena comminata, quando Marcello Pesce sfuggì alla cattura, nell'operazione "All inside". Fu tempestivamente avvertito da una talpa con un sms che lo avvisò dell'imminente arrivo delle forze dell'ordine. Personalità complessa, quella di Marcello Pesce, reggente del clan egemone a Rosarno, nel cuore della piana di Gioia Tauro. Uomo di strategia, conoscitore attento delle dinamiche criminali legate al narcotraffico internazionale, al punto di essere di casa tra i narcos sudamericani. «I miei uomini- ha detto il questore di Reggio Calabria, Raffaele Grassi- sono stati bravissimi. Hanno rischiato la vita per assicurarlo alla giustizia». Pesce è stato invischiato in una vicenda di “masso-mafia”, da cui risultò assolto nel 1995. Agli inizi degli anni '90, un'inchiesta dell'allora procuratore di Palmi, Agostino Cordova, che Era co-imputato assieme a Licio Gelli, ex capo della P2. I Pesce, secondo l'accusa, erano il clan “di fiducia” di un comitato d'affari del nord Italia e il giovane rampollo ne rappresentava l'espressione operativa. «Non è il solito latitante - ha detto Francesco Rattà, capo della Mobile - Ha un cervello aguzzo. È una testa pensante applicata al male». I Pesce sono un clan vecchio stampo, però votato al business: l'ex latitante, tratto in arresto ieri, aveva saputo riconoscere gli insegnamenti dei capi-famiglia sul prestigio sociale delle 'ndrine e per questo assieme al cugino Francesco, “Ciccio testuni”, aveva utilizzato il calcio come attrattiva per il territorio, acquisendo la proprietà di due società dilettantistiche, l'Interpiana e il Sapri. Ma le mira del boss colto erano altrove: coi soldi della droga sono stati ingenti gli investimenti nel settentrione del Paese in imprese apparentemente pulite. Un colpo durissimo, quindi, quello inferto dalla Polizia di Stato. «Oggi la 'ndrina – ha detto Federico Cafiero De Raho, procuratore capo della Dda di Reggio Calabria - perde il suo riferimento sul territorio. Pesce gestiva il traffico di stupefacenti ed è un uomo di grandissimo significato, considerato che la sua cosca insieme ai Bellocco è la padrona del porto di Gioia Tauro».

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