
Un’oasi di spiritualità e cultura al Seminario Arcivescovile Pio XI
Per tutti i presenti è stata un’occasione preziosa per riscoprire la ricchezza della tradizione dei
di Roberto Oliva * - La figura del prete per me è sempre stata troppo alta e irraggiungibile, al punto da non rientrare mai nei miei sogni e desideri di quando ero piccolo. Mai avrei immaginato di diventare prete, non mi sentivo adeguato. Per il periodo dell’adolescenza ho rimosso questa ipotesi, costruendomi mille professioni fatte a posta per me dove potevo esprimere le mie capacità, mentre alla luce della vocazione ho capito che il diventare prete è scoprire effettivamente che è il Signore il vero artefice di tutto.
C’è stato un episodio particolare della mia vita in cui tutto questo è diventato realtà. Durante la settimana santa del 2010 con il mio carico di dubbi e inquietudini – a volte me la prendevo anche con Dio – mi sono sentito di andarmi a confessare con un desiderio profondo di incontrare Dio. Da quella confessione ho iniziato a partecipare con interesse ai vari appuntamenti della settimana santa e sentivo che la vicenda di questo povero uomo di Nazareth mi coinvolgeva sempre di più. Se dovessi indicare una data importante nella storia della mia vita è il 4 aprile 2010, il giorno di Pasqua! Da quella settimana qualcosa dentro di me cambia, ancora non riesco a darne una spiegazione, ma mi sono sentito attratto da quel Gesù che io inconsapevolmente ho sempre cercato e desiderato. Nelle sere successive ricordo che inizia a leggere uno dopo l’altro i Vangeli e meditavo a lungo in silenzio sui vari episodi della vita di Gesù. Lentamente mi sentivo anche chiamato a condividere ogni giorno l’Eucarestia e Lui sempre di più mi attirava dentro la sua amicizia. Il cammino con Gesù ha sempre mantenuto questa costante intimità che mi ha procurato e mi procura una quantità smisurata di gioia che spesso non riesco a contenere. Col passare del tempo però mi sono reso conto di non esserne all’altezza: la bellezza della vocazione supera le mie fragilità che rimangono sempre nonostante i miei sforzi. La gioia dei primi mesi è maturata nel tempo in una fedeltà del Signore nei mie confronti che è da capogiri: non sono io il fedele, ma è Lui che mantiene fede alla promessa fatta.
Per una ragazzo come me – abituato allo stile relazionale frettoloso di oggi – l’affetto di Gesù mi ha lentamente educato ad un amore molto più profondo e sensibile e soprattutto alle sorprese della sua misericordia. Mi rendo conto che a Lui non interessa la mia bravura ma l’abbandono nella sua affidabilità. Rispetto ai primi anni del mio percorso vocazionale, ho imparato a non scandalizzarmi della mia povertà, ma a considerarla come il luogo dove il Signore viene a curarmi le ferite e può manifestarmi pienamente il suo amore. Un amore cioè che non mi allontana perché sbaglio, ma mi accoglie settanta volte sette come la prima volta: a questo genere di amore non ci si abitua facilmente. Ecco perché ho scelto di donare al Signore la mia vita perché ho sentito che quel desiderio di amore e di senso che avevo poteva trovare in Lui pieno compimento a servizio di una fetta di persone molto più grande di coloro ai quali io ritengo di voler bene.
* seminarista
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