Durante il mese di maggio del 1945, l’arcivescovo Antonio Santin iniziava a redigere gli “Appunti sull’occupazione jugoslava”, in cui riportava le voci circolanti a Basovizza e riguardanti circa 60 persone infoibate. Notizia assieme ad altre di tal guisa riportata nella Relazione del 12 giugno presentata a Pio XII. Il 19 luglio nel memoriale consegnato alle autorità italiane «Noi chiediamo al governo quanto segue», il vescovo implorava un’azione insistente affinché fosse rispettato l’accordo di Belgrado, soprattutto per ciò che riguardava la liberazione delle persone imprigionate e deportate dalla Venezia Giulia. Ed ancora una volta denunciava l’esistenza di foibe istriane «piene di cadaveri».
Alla fine del 1945 nella «Nota sulla situazione della Venezia Giulia» tentava di sollecitare interventi internazionali sia sul fenomeno delle deportazioni, sia su quello delle foibe. Il 24 febbraio dell’anno seguente emanava la nota «Il problema della Venezia Giulia è un problema di umanità». In essa veniva gettata luce sugli infoibamenti e sulla situazione dei detenuti nei campi di concentramento. Il 6 maggio i vescovi di Gorizia e Trieste in una “Dichiarazione” congiunta inviata a monsignor Domenico Tardini affinché la inoltrasse al segretario dell’ONU a New York, denunciavano la deportazione di migliaia di italiani dalla Venezia Giulia nel maggio dell’anno precedente, e come nel settembre 1943 e nel maggio 1945 «molte centinaia di italiani erano stati gettati nelle foibe, senza processo, solo perché italiani, e così furono uccisi».
Nei mesi successivi le autorità filo-jugoslave s’industriavano a sequestrare i registri parrocchiali, per asportare quei documenti scritti in lingua glagolitica allo scopo di poter provare l’origine slava della popolazione. Nelle terre occupate s’introduceva il divorzio che poteva esser concesso, anche su richiesta di uno solo dei coniugi, dal responsabile del locale Comitato Popolare; ufficialmente quello civile era il solo matrimonio ammesso. Si proibiva ai sacerdoti di avvicinare la gioventù, soprattutto maschile, e di seguire l’Azione Cattolica, ritenuta un’organizzazione decisamente italiana. Si susseguivano numerosi casi di intimidazione a Parenzo, Orsera, Rovigno.
Nel mirino dell’OZNA finiva anche il giovane sacerdote don Francesco Giovanni Bonifacio. Proclamato beato il 4 ottobre 2008 nella cattedrale di San Giusto e definito «il primo martire delle foibe». Nel suo “Diario” aveva scritto: «chi non ha il coraggio di morire per la propria fede è indegno di professarla». Il pomeriggio dell’11 settembre 1946, don Francesco si mette in cammino verso Grisignana dove lo attendeva per la confessione don Giuseppe Rocco. Dopo una breve sosta in chiesa, don Giuseppe proponeva al confratello di rimanere presso di lui, visto l’incipiente calar del sole e gli strani movimenti di alcune “guardie popolari” proprio nei pressi del cimitero di San Vito, dove i due si sarebbero separati. Ma don Francesco deciso a ritornare e giunto nei pressi di Villa Gardossi, veniva fermato da due uomini (a cui si uniranno altri due) che lo costringevano a seguirlo. Egli pregava Dio per lui ed i suoi persecutori ormai divenuti assassini. Colpito al viso con un sasso, prima di perdere coscienza si faceva la croce. Veniva finito con due coltellate alla gola ed il suo corpo gettato in una foiba della campagna di Grisignana. Aveva appena compiuto trentaquattro anni.
L’anno seguente, precisamente il 19 giugno 1947, era il vescovo Antonio a rischiare la vita durante la sua visita a Capodistria, in occasione della festa di San Nazario, patrono della città. Egli, pur essendo stato avvertito che era stato preparato per lui un agguato, desiderava essere presente tra la sua gente per garantire il regolare svolgimento delle celebrazioni religiose.
Così, nelle sue “memorie” Santin – in quell’occasione picchiato selvaggiamente – ricordava i drammatici fatti di Capodistria: «Mi trovarono, mi insultarono, gridando che dovevo andarmene. E mi trascinarono violentemente giù per le scale (del Seminario) percuotendomi con pugni e con legni sulla testa. Arrivai in cortile perdendo mozzetta, rocchetto, croce e scarpe. Ero tutto insanguinato. Mi spinsero e trascinarono, mentre sui muri esterni del cortile la gente arrampicata urlava improperi, e così arrivai nel refettorio davanti alla cucina. Colà vi era altra folla che si dimenava e gridava. Seppi poi che la gente capodistriana aveva cercato invano la polizia ed era stata bloccata fuori del Seminario mentre tentava di portare soccorso. Ma secondo un piano prestabilito la polizia – per scansare le responsabilità – doveva intervenire a tempo opportuno, consumato il misfatto. E così intervenne. Proprio allora un energumeno entrato in cucina aveva preso dal tavolo un gran coltello con cui le suore tagliavano la carne. E stava uscendo brandendolo, quando la polizia, giunta finalmente, si collocò fra me e la folla urlante. E così fui salvo».
Venti giorni più tardi veniva arrestato proprio il direttore del Seminario di Capodistria, don Marcello Labor, e lo stabile trasformato in caserma. Due erano i capi d’imputazione nei suoi confronti: «affamatore del popolo» e «snazionalizzatore degli sloveni». Mentre manifestazioni di solidarietà gli giungevano dai capodistriani, il vescovo Santin affidava ad un avvocato la difesa del sacerdote, ma tutto era inutile. In ottobre veniva emessa la sentenza di condanna ad un anno di lavori forzati. Dopo le pene subite dai nazisti, ora il carcere inflittogli dai titini. Il 23 agosto 1947 una squadra di facinorosi irrompeva nella chiesa di Pinguente interrompendo ed oltraggiando il sacramento della Cresima. Il giorno dopo a Lanischie, venivano aggrediti don Miroslav Bulesic e monsignor Jakob Ukmar, amministratore apostolico per la zona della Diocesi di Trieste e Capodistria soggetta all’occupazione delle truppe jugoslave. Alla furia omicida scampava il parroco don Stefano Cek. Se l’Ukmar riusciva a sopravvivere nonostante il pestaggio, il processo sommario e la condanna ad un mese di carcere come “provocatore”, una sorte diversa toccava a don Miroslav. Al ventisettenne sacerdote, aggredito da un uomo che era andato a cercarlo con la scusa di avere dei bambini nascosti da cresimare, veniva recisa la carotide. Moriva qualche ora dopo.
*p. Pasquale Triulcio – docente di Storia della ChiesaDirettore ISSR-RC