Avvenire di Calabria

C’è un velo di tristezza nelle parole del sindaco di San Ferdinando, Andrea Tripodi

Il sindaco di San Ferdinando: «Non era così che doveva andare»

Toni Mira

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«Non era così che doveva andare». C’è un velo di tristezza nelle parole del sindaco di San Ferdinando, Andrea Tripodi: «Certo non si poteva più tollerare una situazione tanto pericolosa e drammatica, però si è perso troppo tempo per l’insipienza delle istituzioni nazionali e regionali. Si doveva fare prima e meglio».

È stato lui il 26 febbraio con un’ordinanza a dare il via allo sgombero, ma ora si preoccupa perché sbaraccare non basta: «Bisogna dare risposta alle legittime richieste di questi ragazzi che, ricordiamolo, sono la forza lavoro delle nostre aree. È necessario predisporre condizioni e politiche sociali per un’accoglienza dignitosa e civile. In questo mi auguro di non esser lasciato solo».

Ma ci sono altre due questioni: «La nuova tendopoli con 450 posti era a norma, ora col doppio di persone non lo è più». Gli ovvii rischi vanno affrontati e risolti, però il Comune – che la gestisce – da solo non ce la può fare; e nemmeno con lo smaltimento delle baracche abbattute e diventate rifiuti speciali, soprattutto in una regione come la Calabria in perenne emergenza spazzatura. «Ci siamo rivolti a ditte specializzate. Stiamo pagando noi ma spero che ci rimborsino. Non ci possiamo permettere anche questo; non possiamo pagare per tutti».

«Io non ho un posto dove andare». Folaye, 27 anni, bracciante, è un immigrato della Costa d’Avorio: «Hanno distrutto la mia baracca e ho dovuto mettere tutta la mia roba sulla strada. Nessuno mi dice dove andare. Ora vedo se posso prendere un treno per Napoli». Una scelta con pesanti conseguenze: «Se parto però perdo il lavoro... Ho un contratto regolare fino a giugno in un vivaio di San Ferdinando e ho dovuto avvisare il padrone che ora non potrò più andare. Peccato. Ma ormai è così – prosegue tristemente –, non abbiamo altra scelta». E andare in affitto? «Ho provato a Rosarno, ma non ci vogliono o non ci fanno un contratto regolare». Una costante da queste parti: ufficialmente non s’affitta agli immigrati, poi c’è chi lo fa in nero. Ma Folaye non vuole e così deve ripartire. C’è abituato: in Italia dal 2011 ha raccolto pomodori a Foggia, pesche nel Napoletano e agrumi nella piana di Gioia Tauro. Ha il permesso di soggiorno umanitario che, dopo il decreto sicurezza, non vale più niente. Non potrà avere accoglienza né nei Cas né negli Sprar. E ora ha perso pure il lavoro regolare. È dispiaciuto anche perché – dice – «la baracca l’avevo costruita coi miei soldi comprando le lamiere, per difendermi dagli incendi. Ora non c’è più». Senza casa e senza lavoro.

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