Avvenire di Calabria

Riflettere sulle periferie, là dove il margine diventa grembo

Essere Chiesa nelle periferie è scegliere di amare senza condizioni, è seminare anche nel deserto, è credere ostinatamente nella luce, quando il cielo è coperto

di Angelo Palmieri

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Al cuore di tutto nelle periferie ci sono i giovani, non destinatari passivi d’interventi, ma semi inquieti di futuro

Narrare le periferie è come inoltrarsi in luoghi dove l’asfalto si screpola e le mappe si ingorgano di linee che non spiegano. Non si attraversano solo confini urbani, ma frontiere dell’anima, spazi dove la vita resiste e sogna. Sono le trincee della democrazia, dove ogni diritto è un’affannosa conquista, ogni gesto di cura una rivoluzione gentile. I margini della città non sono semplicemente il frutto di una periferizzazione dal centro: sono terre ferite, segnate da disuguaglianze spaziali, dalla povertà che ha mille volti, da un silenzio che separa. Ma è proprio lì, dove il dolore si fa più acuto, che può nascere una possibilità tenace. Come fiore nel cemento.



In tanti quartieri della Calabria, il deserto è diventato paesaggio abituale. Mancano scuole aperte, servizi essenziali, occasioni di lavoro che incidano davvero. E quando la presenza pubblica svanisce, arrivano altri a stabilire le regole del gioco: la ’ndrangheta e la massoneria deviata, alleate nel promettere ordine in cambio di un’inerzia sonora, protezione in cambio di sudditanza.
Un potere che si nutre del bisogno e semina paura.

Periferie avamposto del cambiamento

Ma nulla vieta di rovesciare questo paradigma avvelenato, di riscrivere la storia dove oggi sembra scolpita nella pietra.
Perché là dove lo Stato si ritrae, si aprono varchi che possono essere occupati dal degrado o abitati da un orizzonte che non cede.
In quelle frange estreme della città, ogni scuola che accoglie è un baluardo contro l’indifferenza, ogni ambulatorio che cura è una ferita che si ricuce, ogni biblioteca che illumina è una scintilla di cittadinanza viva.

Al cuore di tutto, i giovani. Non destinatari passivi d’interventi, ma semi inquieti di futuro. E c’è urgenza di lavoro. Non promesse, ma guizzi progettuali. Cooperative fondate su un’economia della responsabilità, capaci di coniugare inclusione sociale e rispetto della legalità. Agricoltura giusta che spezzi le catene del caporalato. Piccole imprese che custodiscano antichi mestieri e nuove energie. Formazione che guardi al turismo lento, alla cura del paesaggio, ai servizi di prossimità. In questo cammino, anche la Chiesa può dire la sua: non come funzione delegata, ma come coscienza viva, sentinella del Vangelo che veglia nei luoghi dimenticati, che cammina insieme senza pretendere applausi.

La sua forza non sta nel potere, ma nella prossimità. Oratori, centri d’ascolto, parrocchie: crocevia di speranza, luoghi in cui le ferite diventano storia condivisa e le mani si stringono per rialzarsi insieme. Si tratta di abitare gli interstizi, di stare dove nessuno più guarda, di farsi compagnia nei territori dello scarto. È lì che il Vangelo si fa carne: nel volto stanco di un ragazzo senza opportunità, nella madre sola che tiene insieme casa e dignità, nell’anziano dimenticato, nel bambino che chiede solo uno sguardo che lo riconosca.


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Essere Chiesa nelle periferie è scegliere di amare senza condizioni, è seminare anche nel deserto, è credere ostinatamente nella luce, quando il cielo è coperto. Perché ogni comunità, anche la più fragile, può diventare grembo di rinascita. E non possiamo non sperare che si avverta sempre più il desiderio di restare.

*Sociologo

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