
Gianluca Palma, artigiano dell’immaginario e narratore dei piccoli borghi: «La “restanza” è un atto di cura»
Dal Salento, un esempio concreto e poetico di impegno civico e culturale: Gianluca Palma trasforma
Walter Pedullà, novantenne critico letterario, già titolare della cattedra di letteratura italiana all’Università “La Sapienza” di Roma, meridionalista anche per anagrafe (è nato a Siderno), nel suo ultimo libro “Il pallone di stoffa” (Rizzoli) scrive una sentenza definitiva sulla “questione meridionale”: «È insolubile».
Forse a questo punto non bisognerebbe parlarne più di questa annosa questione e semmai affidarla alle pagine della malcerta storia d’Italia come un’anomalia italiana. Non esiste infatti da nessuna parte un Paese che sotto lo stesso manto costituzionale ha territori così distanti culturalmente, socialmente ed economicamente. Non ci sono paragoni in tutto il mondo europeo e occidentale. Se a centosessant’anni dall’Unità, se ne parla ancora, significa che l’unificazione italiana che celebriamo è stata, è, incompiuta, permanendo il divario Nord Sud. È questo è il vizio d’origine dello Stato italiano: il difetto istituzionale (non scritto) che denota l’incapacità, lunga un secolo e mezzo, di costruire uno Stato fondato su un contenuto nazionale come è avvenuto per inglesi, francesi, americani e tedeschi. Lo Stato, in Italia, è tale solo per avere sul territorio prefetture, tribunali, questure, caserme dei carabinieri, ma non lo è per entità immateriale, identità, pari opportunità e sentimento comune di patria.
È, dunque, nel tormentato processo di unificazione nazionale che va cercato l’inizio o “l’invenzione” della questione meridionaleche nasce, come espressione lessicale, nel discorso pronunciato alla Camera dal deputato radicale lombardo Antonio Billia,nel 1873, in cui si faceva riferimento alla disastrosa situazione economica delMezzogiorno. Ma è nel libro dal titolo “Il Mezzogiorno e lo stato italiano” (1911) di Giustino Fortunato che si spiega il significato: «C’è, fra il Nord e il
Sud della penisola, una grande sproporzione nel campo delle attività umane, nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione, e, quindi, per gl’intimi legami che corrono tra il benessere e l’anima di un popolo, anche una profonda diversità fra le consuetudini, le tradizioni, il mondo intellettuale e morale».
È dentro questa cornice oscura di differenze che nell’Italia postunitaria le popolazioni meridionali furono crocifisse, abbandonate, costrette a fuggire, come alternativa alla povertà e alla morte per fame. Con l’Unità, c’è chi ha guadagnato e chi ha perso, rimanendo indietro, come il Sud, per essere poi spinto sempre più indietro, rigettato in basso, dal più forte. All’inizio del XX secolo le regioni del Mezzogiorno già economicamente e culturalmente differenti sono diventate, spiega David Forgacs nel libro “Margini d’Italia” (Laterza) l’oggetto di un fenomeno sociale unico definito “questione meridionale”, nel quale si incarnava il polo negativo di un crescente dualismo Nord Sud.
Qualcuno, fra gli storici dell’economia, talvolta, ha sostenuto che il divario Nord Sud affondi le radici in differenze di sviluppo economico, politico e culturale molto remote, ma, al contrario, emerge chiaramente, da ogni attenta analisi, che il divario fra le due grandi aree del Paese è fenomeno successivo che cominciò a manifestarsi alla fine del 1870 per poi proseguire, sostengono Paolo Malanima e Michele Ostuni, in “Il Mezzogiorno prima dell’Unità d’Italia” (Rubbettino). È quello dell’unificazione il momento in cui, al Sud, viene assegnato il ruolo di “zona da sacrificare” per consentire lo sviluppo del Nord. Nessun Governo, prima e dopo l’avvento della Repubblica ha mai più revocato l’ingiusta e incomprensibile condanna del Sud.
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