Avvenire di Calabria

Giacomo Panizza è un prete che «per caso» da Brescia è arrivato a Lamezia Terme

La sfida alle cosche: «Noi resistiamo»

Davide Imeneo

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«Ha visto la salita? Menomale che Marco si è salvato con il freno a mano». Don Giacomo Panizza ci mostra subito le ferite del suo Progetto Sud, dovute ai tanti attentati contro quel prete bresciano trapiantato a Lamezia Terme. Gesti inequivocabili, come quella volta che tagliarono i freni alla macchina di Marco, un volontario.
Segni della prepotenza mafiosa. «Vi garantisco che schierarsi contro la ‘ndrangheta è assolutamente inevitabile in questa terra». Lui che ha deciso di lavorare con i disabili in un territorio di frontiera.

Ma perché un prete del nord decide di spendersi in Calabria?

Sono qui da oltre quaranta anni. Come sono arrivato? Lo ammetto: per caso. Stavo scrivendo la mia tesina in Seminario, a Brescia, sui sacramenti alle persone con disabilità intellettiva. Era un tempo di grande ricerca interiore partendo dai Vangeli, ma anche di incontri. Uno di questi è stato quello con la comunità di Capodarco, a Fermo, in cui ho conosciuto la Calabria.

Addirittura non la conosceva?

La parola “sud” per me era solo una connotazione geografica. Mi colpiva la gente, tantissima, che emigrava nelle nostre fabbriche del nord. Figuriamoci il termine “mafia”: chi l’aveva mai preso in considerazione?

Poi l’arrivo nell’ultimo lembo di terraferma dello Stivale.

Quando sono arrivato a Lamezia Terme mi sono ritrovato che le due fabbriche più grandi erano l’ospedale e il comune.

E la ‘ndrangheta?

Dopo due settimane dall’avvio del nostro primo laboratorio di rame sono venuti due giovani a chiedere il pizzo. C’erano tutti ragazzi in carrozzina a lavorare e loro volevano soldi da noi? Non ci avevo mai riflettuto: i mafiosi sono dei balordi senza scrupoli.

Come è accaduto?

I mafiosi non ti attaccano frontalmente: ciò che conta per loro è il “non detto”, le sfumature. La prima volta che mi hanno chiesto i soldi erano per “gli amici detenuti” non capii. Andavo settimanalmente in carcere a confessare, ma nessuno mi aveva mai parlato di problemi economici.

Lei come ha reagito?

Andai alla riunione della mia zona pastorale, ma gli altri sacerdoti mi dicevano come – in realtà – la mafia non esistesse. Ero io, secondo loro, a capire male le cose che mi succedevano. Prepotenti sì, ma ‘ndrangheta no. Ci sono voluti venticinque anni, nel 2001, affinché la Chiesa lametina si fermasse a riflettere sulla mafia di Calabria.

Ce ne è voluto di tempo. Un periodo in cui non sono mancate le minacce.

Quando la polizia mi intercettava mi ha dovuto, ad un tratto, spiegare che alcune telefonate – di cui io spesso disconoscevo il significato minatorio – in realtà avevano una finalità intimidatoria nei miei confronti.

Poi lei ha deciso di diventare pure vicino di casa dei Torcasio.

I Torcasio sono un clan diverso. La loro ferocia non la nascondono, anzi la esibiscono. Ricordo che quando andammo a prendere possesso di quella casa, a loro confiscata, il Prefetto mi disse: “Sarà difficile, ma avete le spalle larghe”. Eravamo, infatti, gli unici ad aver fatto la richiesta proprio per quell’immobile.

E i guai invece di diminuire, aumentarono.

Entrando in quel cortile mi resi conto di cosa sia la paura. Una paura, che mi porto ancora dentro, e che non avevo immaginato potesse esistere.

A cosa era dovuta?

Prima ci sono state le parole dei figli del boss: “Facciamo saltare in aria voi e i vostri mongoloidi” oppure “State attento che vi spariamo un giorno di questi”. Ed io ho fatto sempre finta di non capire mettendola sempre sull’amichevole: “Ma che stai dicendo?”. Eppure c’è stato un episodio che mi ha particolarmente turbato.

Si riferisce a qualcosa in particolare?

Quando a minacciarmi ci ha pensato la madre con accanto i suoi figli: “Voi siete un prete del demonio, non del Signore”. Mi è presa una tremarella assurda. Spesso la notte sono terrorizzato da un incubo che predice la mia morte.

Ha paura di essere ucciso?

C’è un pezzo di me che razionalmente riesce a superarlo, ma – una volta rimasto da solo – non riesco a smaltire quel senso di terrore dopo quelle parole. Loro si aspettano che io cada in errore. In quel momento i mafiosi calcheranno la mano con me: la ‘ndrangheta sta aspettando di “farsi giustizia”.

Una condizione che condivide con quanti denunciano il pizzo.

In effetti la mia conoscenza del racket deriva dalle confessioni. Tanti uomini provavano vergogna a dover spiegare ai propri figli, a cui trasferire la propria attività, che hanno sempre pagato il pizzo alla ‘ndrangheta. Oppure quanti non pagavano, ma adesso si trovano di fronte a minacce sempre più pesanti con il coinvolgimento dei propri familiari.

Poi cosa è successo?

Alcuni di questi mi hanno chiesto di creare un gruppo anti–racket e allora lo abbiamo fondato insieme. Si tratta di una piccola esperienza, ma stiamo iniziando a cambiare le cose.

Cosa manca alla Calabria per contrastare davvero le ‘ndrine?

Sono troppo alti i numeri di chi sta zitto, di chi lascia perdere. Di chi non si “compromette” nel contrasto alla ‘ndrangheta. I tanti che non parlano sono stati educati a tacere.

Servono “cattivi maestri” contro la pedagogia mafiosa.

Il “cattivo maestro” è colui il quale ha le spalle larghe per fare il primo passo. Non si può pensare che tutti insieme partano con una crociata contro le mafie. E parliamo di qualità. Accanto a questo, di certo, oggi, il problema è anche la quantità, ossia i numeri di quanti decidono di ribellarsi. In quattro gatti con la mafia non vai da nessuna parte.

Una forma di resistenza?

Resistiamo proponendo. Il volontariato se non si pone il tema della legalità è inutile che faccia beneficenza.

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