Avvenire di Calabria

Il vicepresidente della Cei prende posizione sulla malasanità in Calabria puntando il dito contro una certa politica che favorisce i potenti di turno

Malasanità in Calabria, Savino: «Stop alla politica delle lobby di potere»

A farne le spese sono i calabresi a cui viene negato il diritto alla salute: la politica, secondo il presule, deve liberare il settore affidandolo agli esperti

di Davide Imeneo e Federico Minniti

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Il vicepresidente della Cei prende posizione sulla malasanità in Calabria puntando il dito contro una certa politica che favorisce i potenti di turno. A farne le spese sono i calabresi a cui viene negato il diritto alla salute: la politica, secondo il presule, deve liberare il settore affidandolo agli esperti.

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L'intervista al vescovo Savino (Cei) su malasanità e politica in Calabria

La battaglia dei diritti in Calabria parte dalla salute. Ne è convinto monsignor Francesco Savino, vicepresidente della Cei e vescovo di Cassano allo Ionio, è anche il delegato della Conferenza episcopale calabra (Cec) per la Pastorale della Salute. Lo abbiamo intervistato.

Deserto sanitario, la Calabria annaspa tanto nella gestione della rete ospedaliera che coi medici di base. Cosa serve secondo lei per imprimere un cambiamento tangibile?

Con molta amarezza, come vescovo devo purtroppo dire che la situazione attuale è tragica. Il diritto alla salute è negato. Faccio questa constatazione con grande tristezza perché si tratta di un diritto fondamentale che salvaguardia i valori fondanti della nostra democrazia costituzionale. Senza diritti non c’è, infatti, democrazia, ma “democratura”. Non c’è civiltà, ma imbarbarimento. L’emergenza del Covid ha palesato tutte le grandi criticità del territorio: medicina di comunità inesistente, ospedali di periferia abbandonati a sé stessi, cura dei soggetti più fragili a dir poco discutibile. Come si fa a parlare di medicina di prossimità se in Calabria non esistono le Case di comunità che sono l’avamposto primario per la salute dei cittadini? Occorre, perciò, aprire uno spiraglio di riflessione rigorosa sul rapporto tra sanità pubblica e sanità privata. Spesso ho l’impressione che ci siano strani giochi di potere per favorire gli interessi privati ad appannaggio di quelli pubblici. La Calabria deve liberarsi da una mentalità rassegnata dove la politica occupa tutti gli spazi senza affidare la gestione di un settore così delicato ai più competenti, ai migliori. Non si può accettare, come comunità, di essere solo destinatari di un mero assistenzialismo, ma è il momento di lavorare tutti insieme a un Welfare generativo.


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Eppure sembra che si stiano battendo tutte le strade. Medici cubani e concorsi che, secondo la politica, spesso vanno deserti (forse perché a tempo determinato). Possibile che nessuno si voglia impegnare in Calabria?

Come si può rendere professionalmente appetibile il Mezzogiorno? Quando si parla di sanità e welfare sociosanitario e socio-assistenziale bisogna avere una visione. Oggi qual è questa visione in Calabria? Continuando nel nostro ragionamento non possiamo non riferirci alla sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione: se manca la visione d’insieme come si può delegare a una Regione la gestione in toto della salute dei propri cittadini? Diciamoci la verità: la classe politica calabrese ha scelto di fare accordi con gruppi di potere che condizionano la sanità locale invece che capire quali sono i bisogni reali del territorio. Dirò una cosa forse impopolare: la classe politica deve mettersi da parte e riuscire a scegliere manager capaci e indipendenti.

Se non si creano queste precondizioni chi vorrebbe mai venire a investire in Calabria? Sia a livello professionale che a livello aziendale parliamo di pura utopia. Mi vengono in sostegno le parole di don Pino Puglisi: «I mafiosi occupano il territorio, ma noi dobbiamo abitare il territorio». Di fronte ai poteri forti che condizionano la Calabria e la sanità in Calabria dovremmo ragionare sul nostro “gioco a ribasso” sull’abitare i nostri territori. Un ragionamento di segno opposto alla costante emorragia generazionale dei tantissimi giovani che partono, si professionalizzano (anche in ambito sanitario) e non torneranno mai più in Calabria. Bisogna riattivarsi e mettere al centro i beni comuni potremmo seminare oggi per raccogliere domani. Sempre rispetto ai “numeri” ci sono altri due temi da affrontare. Il primo riguarda gli specializzandi. In Calabria durante l’emergenza covid sono stati utilizzati in 10 al fronte delle migliaia nelle regione del centro nord. Anche i giovani medici preferiscono fare la valigia e partire? I giovani sono scoraggiati. Girando ospedali d’eccellenza e multinazionali nell’ambito della sanità incontro costantemente giovani Monsignor Savino calabresi. C’è una patologia tipicamente calabrese: l’annuncite. I giovani sono stanchi di sentire tanti proclami, ma di non vedere mai - e dico mai - niente di concreto. In queste condizioni anche lei non prenderebbe la valigia e andrebbe via?


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Altro tema “numerico”. Portiamo ad esempio il territorio di Reggio Calabria: ci sono 1200 medici per 200 posti letto. Un rapporto 1 a 6. Ma gli ospedali periferici sono a rischio chiusura…

Le periferie sono ancora più periferie. E reclamare diritti per questi luoghi ci fa somigliare a Giovanni Battista si rischia di essere «voci che gridano nel deserto». Le logiche lobbistiche non guardano a chi è lontano, anzi proseguono nella logica della spoliazione continua. Rosario Livatino diceva: «Mi spaventa il silenzio degli onesti»: oggi in Calabria non c’è neanche l’indignazione; c’è una rassegnazione allo status quo, le considerazioni si fermano ai crocicchi delle strade. Io dico: indigniamoci. I calabresi sono mediamente più intelligenti - dalle grandi intuizioni - e generosissimi. Recuperiamo queste caratteristiche per non cedere alla tentazione che le cose non possono cambiare.

Infine, cosa auspica dalle novità introdotte dal Pnrr coi fondi espressamente dedicati alla medicina di prossimità?

Ho la percezione che il Pnrr sia diventato una specie di talismano al quale affidarsi. Però c’è da chiedersi: chi progetta? Lancio un appello alla classe dei burocrati: non disperdiamo questa ultima grande occasione, non sbagliamo a progettare, investire e spendere le risorse che ci sono state affidate. Se dovessi pensare a un aspetto su cui non dovremmo fallire dico: strutturiamo in modo decisivo sui servizi domiciliari.


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Il medico di base reggino: «Il Pnrr? Realizzerà tanti contenitori vuoti»

Domenico Catalano è un medico di assistenza primaria già dal 1984. Attualmente impegnato con un progetto di medicina di gruppo con altri quattro medici reggini. Partendo proprio da questa esperienza abbiamo deciso di conoscere l’opinione di Catalano sulla medicina territoriale in riva allo Stretto.

Perché un medico di base sceglie di lavorare in équipe?

Nella nostra Asp, a differenza di tutto il resto della regione Calabria, non sono state ancora istituite le Aft (Aggregazione funzionale territoriale) che sarebbero un miglioramento delle medicine di gruppo già esistenti. Questa metodologia la ritengo utile perché si possono scambiare opinioni, dubbi e soluzioni per i nostri pazienti mettendo a confronto le diverse esperienze di ciascuno.

Sarebbe uno strumento in più anche per i giovani medici.

Rispetto ai giovani medici possiamo affermare di vivere un momento storico: dopo molti anni in cui non si assegnavano le “zone carenti” per la Medicina generale finalmente il nuovo Commissario ha deciso di sbloccare alcune posizioni a partire da fine febbraio.

E che consiglio si sente di dare loro?

Farsi rispettare dai pazienti e rispettare i pazienti sin dal primo giorno in ambulatorio. Evitare di svolgere le proprie mansioni ai margini del possibile per aumentare il numero dei propri assistiti. Se posso usare una metafora dico loro: lavorate dal primo giorno come se fosse il vostro ultimo giorno di servizio. Questo pagherà molto di più.

A migliorare le loro performance potrebbero arrivare i frutti del Pnrr?

Purtroppo non credo che il Pnrr porterà grandi miglioramenti alla professione medica. Quei fondi, infatti, sono indirizzati quasi interamente alle strutture. Infatti, la visione miope che sta guidando questo processo ci farà correre il rischio di avere tante strutture, nuove e belle, ma vuote. Ribadisco il concetto, entrando nel dettaglio: le Case di comunità previste dal Pnrr si sono già rivelate in altre regioni solo un contenitore vuoto.

Sembra quasi che non ci sia speranza per la medicina del territorio.

Tutt’altro. Ci sarebbero molte cose da fare. Tra le prime ci sarebbe da dare seguito alle prime Aft presso l’Asp di Reggio Calabria; questo avvicinerebbe la medicina territoriale ai pazienti. Altra cosa da migliorare è la capacità di connessione tra le figure che orbitano attorno a questo settore sia in ambito territoriale che ospedaliero che troppo spesso lavorano a compartimenti stagni provocando mortificanti “rimbalzi” a danno dei cittadini-pazienti.

E per il futuro cosa sarebbe necessario per migliorare i servizi?

Il futuro è già presente e si chiama Telemedicina, cioè l’uso di devices che permetteranno al medico di fare diagnosi e terapia in tempi rapidi sia presso il proprio studio sia presso il domicilio del paziente. Il tutto, in caso di patologie complicate, restando in contatto con gli specialisti coi quali si potranno inviare i risultati praticamente in tempo reale. Questo permetterà di abbattere molti accessi impropri al Pronto Soccorso degli ospedali migliorando sia la gestione del paziente che l’utilizzo delle strutture d’urgenza. Un altro aspetto innovativo, ma non di minore importanza è l’istituzione del ruolo unico della Medicina generale: in questo modo, i medici di assistenza primaria potranno effettuare compiti a ore nelle Aft sul territorio e i medici di continuità assistenziali potranno essere utilizzati nei trasferimenti per le zone carenti nella percentuale prevista.

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