Avvenire di Calabria

Padre Gabriele Bentoglio offre una riflessione in occasione della Giornata mondiale dei migranti e dei rifugiati, celebrata dalla Chiesa cattolica il 27 settembre

Migranti, Bentoglio: «Intollerabile sfollare le persone»

Gabriele Bentoglio *

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La Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, nella Chiesa cattolica, anche quest’anno è entrata in calendario nel mese di settembre.
È una ricorrenza che vanta una lunga storia: ha superato i cent’anni. Infatti, era nata come giornata nazionale italiana dell’emigrante, decretata da papa Benedetto XV, con la lettera circolare «Il dolore e le preoccupazioni», del 6 dicembre 1914. Non si capisce perché molti continuino erroneamente ad attribuire l’istituzione di quest’evento al santo papa Pio X, che sicuramente ne è stato l’ispiratore, ma è morto nel mese di agosto del 1914 ed è toccato al suo successore darne l’avvio con documento ufficiale, a pochi mesi dall’inizio del suo pontificato.
E così, la prima commemorazione ha avuto luogo il 21 febbraio 1915, con l’intenzione che da quell’anno fosse ricordata la prima domenica di quaresima. Ha subìto alterne vicende a causa dei due conflitti mondiali e non sempre è stata celebrata. Soltanto dopo la seconda guerra mondiale è stata estesa a tutta la Chiesa cattolica, è diventata mondiale e ha allargato la sua attenzione anche ai rifugiati, oltre che ai lavoratori migranti.
Nel 1928, la Congregazione Concistoriale l’ha trasferita alla prima domenica d’avvento. Poi, la Costituzione «Exsul Familia Nazarethana», del 1 agosto 1952, ha stabilito che fosse «celebrata nel periodo e nel modo che le circostanze locali e le esigenze d’ambiente sociale suggeriscono» (n. 24.6). In seguito, è stato il santo papa Giovanni Paolo II a fissarla in data unica per tutta la Chiesa nella prima domenica dopo l’Epifania, con lettera del 14 ottobre 2004, a firma del Card. Angelo Sodano, Segretario di Stato.
Ma la storia travagliata di questa ricorrenza è ripresa con papa Francesco, sicuramente sollecitato dalla nuova sezione per i migranti e i rifugiati, che ha costituito nel 2017 e che personalmente dirige, all’interno del Dicastero per lo sviluppo umano integrale. Infatti, Il 14 gennaio 2018, papa Francesco ha annunciato che, a partire dall’anno successivo, la giornata avrebbe dovuto cambiare data ed essere celebrata la seconda domenica di settembre. Poi, però, è sopraggiunto un nuovo ordine, che ha spostato la ricorrenza annuale all’ultima domenica di settembre.
Ecco, allora, che se contiamo a partire dalla prima giornata celebrata, nel 1915, quella del 2020 è la numero 106.
Siamo qui, alla Giornata di quest’anno, che papa Francesco ha voluto dedicare al dramma degli sfollati interni, dandole il titolo: «Come Gesù Cristo, costretti a fuggire. Accogliere, proteggere, promuovere e integrare gli sfollati interni». Agli sfollati interni, poi, il Santo Padre ha aggiunto «tutti coloro che si sono trovati a vivere e tuttora vivono esperienze di precarietà, di abbandono, di emarginazione e di rifiuto a causa del COVID-19».
Secondo il direttore internazionale del Jesuit Refugee Service, P. Thomas Smolich, nel 2019 ci sono stati 45,7 milioni di sfollati interni a causa di conflitti armati, violenza generalizzata o violazioni dei diritti umani. Difficile, invece, calcolare il numero dei cosiddetti “eco-profughi”.
Si tratta di persone che vivono in condizioni in­tollerabili d’insicurezza, caratterizzate da povertà, violenza, discriminazione e negazione dei diritti più elementari. A volte le cause vanno ricercate in un ambiente povero di risorse, nella mancanza di programmi educativi o nei disastri naturali. Altre volte, in uno Stato debole e incurante delle sorti dei suoi cittadini. In molti casi, nei conflitti violenti, in cui i civili vengono scelti come bersaglio, uccisi o sottoposti a trattamenti brutali, in un clima di impunità per i perpetratori di tali soprusi.
Con questa premessa, possiamo identificare gli “sfollati interni” per lo più tra le vittime delle guerre, delle catastrofi ambientali o delle crisi economiche.
Vi sono anzitutto i migranti interni, poveri tra i poveri, che sfuggono alla miseria rurale, per trovarne una ancor più disumana negli slums dei grandi centri urbani; poi le vittime della delinquenza, portatrici di traumi gravi, violate nella loro dignità umana ancor prima che nel corpo; le persone in condizioni di schiavitù; le vittime del traffico di esseri umani, principalmente donne e minori; i bambini-soldato, strappati alle loro famiglie e addestrati alla violenza, condannati a morire nella guerra o a vivere nella psicosi e nella marginalità; i senza dimora, gli abitanti delle strade, dei depositi d’im­mondizia o del greto dei fiumi; le fasce di popolazione a rischio d’esclusione sociale per basso reddito e inaccessibilità alle risorse.
Tra questi gruppi, pertanto, emergono i lavoratori migranti interni, che non escono dai confini dello Stato di cui sono cittadini, ma dalle zone rurali si trasferiscono in quelle urbane. Questo è un fenomeno talmente imponente che ha prodotto un degrado della qualità della vita per centinaia di milioni di persone. Ne derivano condizioni d’invivibilità per anziani e disabili, aumento dell’infanzia abbandonata, maggiore esposizione alle calamità ambientali, rischio di disastri industriali, pericolo di epidemie, criminalità e sfruttamento. È un tipo di migrazione che rappresenta una strategia molto rischiosa per le famiglie più povere, perché le priva dei suoi membri più produttivi, spingendole ulteriormente verso l’impoverimento. Al tempo stesso, coloro che migrano verso le città vanno a comporre un gruppo di poveri e marginali nell’ambiente urbano. In sostanza, l’inurbamento accresce la disuguaglianza tra campagna e città, incrementando il numero dei poveri in entrambi i contesti.
Accanto ai lavoratori migranti, gli “sfollati interni” sono in maniera particolare le vittime di disastri eco-ambientali, oggi in aumento in molte parti del pianeta, costretti ad abbandonare le loro terre a causa di uragani, tsunami, terremoti, alluvioni e desertificazioni. Cambiamenti che possono essere temporanei o permanenti. Si calcola che negli ultimi 50 anni il numero delle persone colpite da calamità naturali sia aumentato in media del 900%. La concausa principale di quest’aumento va ricercata nelle peggiorate condizioni di vita della metà più povera della popolazione mondiale: crescita demografica incontrollata, inurbamento forzoso, abbandono delle campagne, carenza di infrastrutture e di servizi pubblici, cattiva qualità delle costruzioni, pessima gestione del patrimonio idro-geologico, degrado sociale, nonché il sovrapporsi di cataclismi ambientali e conflitti armati.
Oggi sarebbe possibile ridurre notevolmente le sciagure naturali, ma tale possibilità si scontra con uno dei limiti delle democrazie moderne: l’incapacità di portare avanti progetti a lungo termine. Per intervenire seriamente sul tema della vul­nerabilità occorrono risorse e tempo. In questo senso, le risorse attualmente investite sono una cifra ridicola se messa a confronto, ad esempio, con le spese in armamenti.
Inoltre, gli effetti dei cambiamenti climatici stanno riducendo le terre fertili nella parte più povera del pianeta, dando vita ad un nuovo potenziale rischio di competizione per l’acqua e la terra, mentre è sotto gli occhi di tutti l’insorgere di forme sempre più persistenti di malnutrizione e di limitato accesso al cibo.
Questo quadro drammatico, soltanto sommariamente tratteggiato, è oggetto della riflessione che le collettività ecclesiali e la comunità internazionale sono sollecitate a fare, leggendo il Messaggio di papa Francesco. Il Santo Padre allunga la lista dei verbi programmatici, che spesso ricorrono nelle sue prese di posizione nell’ambito delle migrazioni, e, accanto a «accogliere, proteggere, promuovere e integrare», declina una serie di coppie, che possono orientare le opportune strategie d’intervento nella complessa e variegata questione degli sfollati interni. Raccomanda, dunque, una sorta di itinerario che procede così: «bisogna conoscere per comprendere; è necessario farsi prossimo per servire; per riconciliarsi bisogna ascoltare; per crescere è necessario condividere; bisogna coinvolgere per promuovere; è necessario collaborare per costruire». 
A me pare che la sollecitudine pastorale della Chiesa, manifestata dalla voce del Santo Padre e da tantissime altre espressioni delle comunità ecclesiali, offra un importante contributo di valore alle motivazioni che devono spingere la comunità internazionale a ripensare il concetto di responsabilità degli Stati. I cittadini hanno dei diritti fondamentali che ogni Stato deve garantire. Primo tra tutti quello della protezione dalla violenza, insieme alla sicurezza che deriva da una corretta gestione del patrimonio ambientale.
Purtroppo, spesso ci troviamo di fronte a Stati che sterminano i propri cittadini o, nella migliore delle ipotesi, non hanno la forza e le risorse per proteggerli.
È intollerabile che, nel terzo millennio, vi siano Stati che uccidono o sfollano i loro cittadini, o che semplicemente stanno a guardare mentre altri lo fanno.

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