Avvenire di Calabria

L'Ordinario Militare d'Italia ripercorre i suoi anni di ministero episcopale

Monsignor Santo Marcianò è arcivescovo da quindici anni

Oggi l'anniversario della consacrazione avvenuta nella Basilica Cattedrale di Reggio Calabria

di Davide Imeneo

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«Ogni ministero che il Signore affida ci supera sempre, c’è una sproporzione enorme con le nostre capacità umane; ma, nell’accoglierlo, sperimentiamo che sempre la fedeltà infinita e commovente di Dio precede e accompagna. Crescere nella responsabilità ministeriale, come accade a un presbitero consacrato vescovo, è crescere in tale consapevolezza; consapevolezza che, tuttavia, non è solo “operativa” ma riguarda proprio la relazione con Cristo, la profondità del rapporto con Lui». A 15 anni dalla sua consacrazione episcopale, ricevuta per imposizione delle mani da parte dell’arcivescovo Vittorio Luigi Mondello, il 21 giugno del 2006 nella Cattedrale di Reggio, monsignor Marcianò ripercorre in questa intervista gli anni di ministero episcopale, prima alla guida dell’arcidiocesi di Rossano-Cariati, poi dal 2013 come Ordinario militare per l’Italia, senza tralasciare gli anni della giovinezza: dalla vocazione al sacerdozio, e poi il ministero di formatore in Seminario.

In questi lunghi anni ha avuto modo di sperimentare la fedeltà del Signore: come è cambiato il suo rapporto con Lui?

Parlare di fedeltà, è applicare una categoria dell’amore e l’amore nel quale il vescovo è inserito e deve crescere è l’amore stesso di Cristo Buon Pastore. È amando con il Suo stesso amore che puoi essere ciò che sei chiamato ad essere e lasci Gesù agire in te; e, in questo amore, cresce la relazione stessa con Lui. Credo sia tutto qui il senso della Croce che il vescovo porta sul cuore.

«È amando con il Suo stesso amore che puoi essere ciò che sei chiamato ad essere e lasci Gesù agire in te; e, in questo amore, cresce la relazione stessa con Lui. Credo sia tutto qui il senso della Croce che il vescovo porta sul cuore».

Le sue radici reggine sono una caratteristica di cui è fiero, lo ha ripetute in più occasioni. Quali tratti distintivi del suo episcopato sono stati “forgiati” durante il ministero sacerdotale in riva allo Stretto?

Le radici sono le radici della famiglia, della terra e del legame viscerale che noi reggini manteniamo sempre con essa. Un legame che, quanto più ci identifica, tanto più ci lascia liberi, perché non ci fa temere di perdere la relazione con la madre terra. Le radici, per un presbitero, affondano però ancor più nella Madre Chiesa; e io sento tutta la fierezza e la responsabilità di essere anzitutto figlio della Chiesa di Reggio, che mi ha dato il Battesimo e mi ha accompagnato alla pienezza del sacerdozio.

Sento in me l’esperienza del laicato, del mondo giovanile nel quale sono cresciuto, dei gruppi di Azione Cattolica che, ai miei tempi, vivevano una stagione di straordinaria vivacità; la parrocchia, la diocesi, erano davvero casa per noi giovani: palestra di relazioni, di volontariato, di preghiera. So dunque per esperienza quanto servizio ecclesiale, oltre che fantasia spirituale, passi attraverso il popolo di Dio e questo mi consente, da vescovo, di vedere nei laici un dono e nei giovani non solo una promessa di futuro ma – come dice Papa Francesco - l’«oggi» della Chiesa. È un patrimonio prezioso ora che, da Ordinario Militare, sono alla guida di una diocesi che mi pone in stretto contatto con il laicato e, soprattutto, conta la più alta percentuale di giovani nella Chiesa italiana.

In particolare, però, porto nel mio cuore l’impronta dei presbiteri della nostra Chiesa e dei vescovi che l’hanno servita. Una vera storia di santità, una storia di vero amore per la Chiesa e per il popolo, una testimonianza di dedizione. La forza di questi pastori, ciascuno a suo modo, ha sostenuto concretamente la crescita del mio sacerdozio, fin dalle prime difficoltà incontrate in seminario e poi in tutti i tornanti più complessi del ministero. Da alcuni ho ricevuto una sapiente guida spirituale, altri mi hanno riservato un profondo affetto paterno, altri ancora la loro preghiera, silenziosi compagni di cammino assieme a tante persone consacrate. Altri, infine, sono stati luminosi esempi, ai quali attingo ancora oggi: Monsignor Sorrentino, che mi ha ordinato presbitero; Monsignor Nunnari, con il quale ho avuto il dono di collaborare in parrocchia; e Monsignor Mondello, alla cui guida il mio sacerdozio è cresciuto e che, con la fiducia paterna per la quale gli sono infinitamente grato, ha curato e consacrato il mio episcopato. Infine, come dimenticare la santità di Monsignor Ferro, il quale, tra l’altro, aveva intravisto in me da ragazzo i germi della vocazione sacerdotale? Ma è soprattutto la fraternità del presbiterio reggino che mi ha nutrito e ancora continua a farlo. 

Un ritiro spirituale a Monteporo. Da sinistra: Denisi, Sorrentino, Nunnari e Marcianò.

«Sento la fierezza e la responsabilità di essere figlio della Chiesa di Reggio, che mi ha dato il Battesimo e mi ha accompagnato alla pienezza del sacerdozio. Sento in me l’esperienza del laicato, del mondo giovanile. Porto in cuore l’impronta dei presbiteri della nostra Chiesa e dei vescovi che l’hanno servita. Alcuni sono stati luminosi esempi, ai quali attingo ancora oggi: Monsignor Sorrentino, che mi ha ordinato presbitero; Monsignor Nunnari, con il quale ho avuto il dono di collaborare in parrocchia; e Monsignor Mondello, alla cui guida il mio sacerdozio è cresciuto e che, con la fiducia paterna per la quale gli sono infinitamente grato, ha curato e consacrato il mio episcopato. Infine, come dimenticare la santità di Monsignor Ferro».

Rossano – Cariati è stata la prima diocesi che ha guidato. Cosa porta con sé di quella esperienza?

Credo che il legame con la Chiesa che genera la sponsalità episcopale rimanga sempre unico. La diocesi di Rossano-Cariati non solo mi ha accolto da vescovo ma mi ha reso vescovo. In quella Chiesa, ho mosso i primi passi di un ministero ricco di entusiasmo e consapevole di tante difficoltà, vivendo la diocesi come una comunità, un’autentica famiglia e, com’è immaginabile, serbando nel cuore innumerevoli ricordi. Penso, solo per citarne alcuni, alla Visita Pastorale, fin negli angoli più remoti del territorio diocesano; alle tante Lettere Pastorali, sempre accolte con affettuoso interesse, strumento di meditazione, programmazione e dialogo con i fedeli; agli appuntamenti diocesani per le Celebrazioni in Cattedrale, i Convegni annuali, le Giornate Giovani; alle iniziative di spiritualità e alle Scuole di preghiera… E penso alle tante ore dedicate a ricevere e ascoltare chi desiderasse parlare al vescovo: forse l’aspetto più bello, almeno all’inizio, è stato tenere ogni giorno la porta dell’episcopio aperta a chiunque, senza appuntamento. L’attesa delle persone rischiava di essere molto lunga, io stesso non avevo orari e spesso il pranzo saltava o arrivava all’ora di “merenda”… ma così la mia Chiesa Sposa è entrata sempre più nel mio cuore. 

Ho amato profondamente la Chiesa di Rossano-Cariati! Ho amato profondamente la gente, costruendo rapporti personali ricchissimi; e mi sono sentito molto amato. Ho amato profondamente i sacerdoti, crescendo nella paternità episcopale, anzitutto nei loro confronti; certo non senza errori o fatiche, ma nella quotidiana, sincera e grata consapevolezza che il loro ministero era per me il primo vero dono e la prima responsabilità, un tesoro da curare e far crescere, nella luce più ampia e forte della comunione sacerdotale.  

Adesso lei è a servizio dell’Ordinariato militare, una diocesi con caratteristiche uniche. Come ha impostato la sua missione pastorale?

Anche come vescovo dei militari italiani, ho da subito sentito che il mio primo compito era quello di avere a cuore i sacerdoti: conoscerli, ascoltarli spesso e personalmente, seguirne la vita e il ministero, riporre in loro fiducia, presupposto di quella collaborazione che concretizza il legame intrinseco tra vescovo e presbiteri. Certo, in una diocesi come la nostra è tutto più complesso. L’Ordinariato Militare si estende, infatti, su tutto il territorio nazionale e nei Paesi in cui i nostri militari operano in Missioni Internazionali di sostegno alla pace. In ciascuna di queste realtà – come in ogni caserma, scuola, unità operativa in Italia - è presente un cappellano militare, che condivide la vita di uomini e donne delle nostre Forze Armate e porta il Vangelo di Cristo, non solo con la catechesi e la liturgia ma con la forza dei rapporti umani e l’edificazione di comunità fraterne.

Se a Rossano avevo iniziato il ministero aprendo le porte e accogliendo, in Ordinariato ho subito compreso come fosse necessario essere “in uscita”, per raggiungere i militari, le loro famiglie, i tanti giovani, là dove essi erano, nonché per dimostrare tutta la mia vicinanza ai sacerdoti che, com’è comprensibile, non sempre hanno facilità a raggiungere Roma, dove l’Ordinariato ha sede. Oltre la Messa Crismale, manteniamo un importante incontro annuale dei sacerdoti. Per tutti portiamo avanti la Scuola di Preghiera. Un’esperienza bellissima, inoltre, è il Pellegrinaggio Militare Internazionale annuale a Lourdes, in cui inseriamo anche la Festa diocesana dei Giovani… ma le iniziative diocesane centralizzate sono poche e, oggi, ancor più ostacolate dalla pandemia.

Una fetta importante del mio ministero, poi, si spende in rapporti istituzionali. Da Ordinario, però, sono soprattutto un vescovo “itinerante”. Questo mi consente di raggiungere i cuori delle persone, di conoscere da vicino il mondo militare italiano e il patrimonio di valori di cui esso è portatore, anche nei luoghi di conflitto. Assieme a coloro che il Signore mi ha affidato, e con la protezione di San Giovanni XXIII, concepisco la mia missione tra i militari italiani come vera missione di pace!

Il suo ministero sacerdotale prima ed episcopale poi, è sempre stato vissuto con prossimità, affetto e paternità nei confronti dei sacerdoti. Che consigli vuole dare ai giovani preti millenials che vivono l’alba del loro ministero?

Credo di aver in parte risposo ala domanda, spiegando l’affetto profondo che, da vescovo, nutro per i sacerdoti ma anche quello che ritengo il tesoro più prezioso loro affidato: la comunione!

I preti millennials troveranno sicuramente linguaggi più adatti dei miei per esprimere il profondo significato di questo termine e renderlo accessibile alla comprensione di tutti, anche dei giovani millennials; ma il “cuore” rimane questo: non tanto “fare” ma “essere” comunione. Sapere di aver consegnato se stessi a Colui che, per la comunione e nella comunione, si è donato fino alla fine.

Per tale ragione, ai preti di oggi chiederei semplicemente di non lasciarsi inquinare da quello che Papa Francesco chiama lo spirito di mondanità, ovvero dalla logica imperante dell’individualismo; in una parola, suggerirei di essere preti “donati”. Da padri, donati alla gente; prima ancora, donati, da figli, a Dio e, da fratelli in Cristo, al presbiterio e alla comunione con il vescovo.

Dunque, curare questo essere “donati”, curare queste relazioni. Curare la relazione con la gente, impegnarsi a conoscere le persone con i loro doni e limiti, ricordando che l’umano è il punto di ingresso del Vangelo e della Grazia di Dio. Curare la relazione con il vescovo e i confratelli, trovare tempo per il dialogo profondo e la gioia condivisa. E curare la relazione con Cristo!

Per questo, ai giovani preti dico, soprattutto, di pregare senza stancarsi, di celebrare l’Eucaristia senza saltare nemmeno un giorno; perché un prete rischia di farsi sopraffare dalla noia e voler “possedere” la preghiera, possedere l’Eucaristia, senza lasciare che sia Essa a guidarlo e, in Essa, la profondità del rapporto con il Signore. Ecco, il prete rischia di impossessarsi del “sacro”, di impossessarsi di Cristo… e invece è bellissima la nostra umile preghiera perché è una risposta di fedeltà alla fedeltà di Dio. E, come dicevo prima, fedeltà altro non è che amore!

«Ai giovani preti dico, soprattutto, di pregare senza stancarsi, di celebrare l’Eucaristia senza saltare nemmeno un giorno; perché un prete rischia di farsi sopraffare dalla noia e voler “possedere” la preghiera, possedere l’Eucaristia, senza lasciare che sia Essa a guidarlo e, in Essa, la profondità del rapporto con il Signore».

Per 15 anni è stato formatore presso il Seminario arcivescovile di Reggio ed ancora oggi si è speso molto per promuovere la formazione umana. Perché ritiene sia così essenziale?

Il senso della formazione umana sta proprio qui: è formazione all’amore, a quel peculiare amore che il sacerdote è chiamato a vivere. Inizialmente, ho attinto all’Esortazione Apostolica Pastores dabo Vobis di Giovanni Paolo II, provando ad attuarne le indicazioni in Seminario; oggi, i molteplici interventi magisteriali di Papa Francesco, e lo stesso esempio del suo ministero, confermano con chiarezza quanto sia necessaria l’attenzione ai tratti umani e relazionali della vocazione presbiterale. La «formazione umana», pertanto, è una modalità di intendere il cammino di preparazione al sacerdozio, e poi di formazione permanente – a cui un vescovo deve porre grande attenzione -, come un prendersi cura dell’umanità del prete, del suo equilibrio affettivo ed emotivo, del suo essere “prima di tutto un uomo”: della sua integralità di persona, chiamata a maturare in un amore celibatario, ovvero nella della passione sponsale per Cristo e, in Lui, per la Chiesa Sposa. Il dono di sé del sacerdote, in fondo, germoglia sulla consapevolezza gioiosa di essere chiamati a questo amore nella pienezza, nella dedizione, nella fecondità. E nella gratitudine di appartenere a Cristo.

Oggi benedico il Signore per i 15 anni del mio ministero nel nostro Seminario Pio XI, prima da padre spirituale e poi da rettore; tra tutti i compiti che mi sono stati dati nella Chiesa di Reggio, e che ricordo con grata commozione – la prima parrocchia, Santa Venere; il servizio di vice parroco al Soccorso, l’insegnamento della religione -, questo è quello che ho vissuto con maggiore intensità. Accompagnare i passi di ogni vocazione ti pone continuamente dentro il Mistero di Dio che ama e chiama; e chiama anche in un tempo come il nostro, in cui la secolarizzazione e il materialismo sembrano avere la meglio. Dio chiama noi preti e noi vescovi, ci chiama per risvegliare la sete di Infinto nel cuore dell’uomo. È la bellezza della nostra vocazione! E vale la risposta di tutta la vita!  

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