Avvenire di Calabria

Najib narra il suo viaggio: «Appoggiati l’uno sull’altro»

«Pregavo per sopravvivere al mare»

Federico Minniti

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Najib e Waleed ci attendono al Villaggio dei Giovani di Attendiamoci Onlus.
Sono due ventenni egiziani con loro don Valerio che li ha accolti. «Siamo quì per un fatto di cuore» ci dice Najib, cristiano ortodosso coopto, arrivano in Italia il 24 giugno 2013. Era la seconda volta che provava a raggiungere il nostro Paese. «La prima cinque mesi prima, ma sono stato rimpatriato. Non avevo nessun documento».
Una voglia ostinata, quella di Najib di raggiungere l’Italia, che parte dall’insofferenza. L’Egitto non è una nazione in cui vivere serenamente. «Cosa apprezzo dell’Italia? Che puoi uscire con gli amici sapendo che poi ritorni tranquillamente a casa». Najib ha lasciato in Egitto la sua famiglia: 3 fratelli e i genitori, ma una “casa aperta” in cui «convivevamo in tredici». Un focolare di veri cristiani che tutt’oggi, come ci conferma lui stesso, cerca di convivere con gli islamici. Ma questo – per tanti anni – non è stato facile.
Oggi al suo fianco c’è Waleed, musulmano con l’arte del coiffeur, pronto a tornare a Parigi da un suo amico col quale ha affrontato il viaggio dall’Egitto. Najib ci racconta di quei giorni, «uno appoggiato sull’altro» con in mano la sola Bibbia.
«Una volta arrivati ad Alessandria ci hanno chiusi in una stanza per dieci giorni».
Incuriositi gli chiediamo perché. «È chiaro: loro (gli scafisti, ndr) cercano di raccattare quanta più gente possibile prima di partire».
Poi undici giorni nel Mediterraneo, una continua preghiera di salvare la propria vita. «Gridavo di chiamare la polizia, che stavamo morendo – ci spiega – uno degli scafisti mi ha risposto: “impossibile, così ci arrestano”, per loro non eravamo niente».
Undici giorni con i morsi della fame e una situazione atroce: «Bevevamo acqua intrisa di benzina e poi ponevano al centro del barcone una grande scodella con del riso; c’era la corsa, uno sopra l’altro, per acciuffare un po’ di cibo con le mani».
Ci viene naturale chiedergli se si è pentito di aver fatto quella scelta. Ci risponde con il sorriso: «Appena arrivato sì; quando avevo deciso di partire non avevo considerato tutto quello. Pensa: nella mia vita mi ero allontanato di casa al massimo per dieci giorni. Ero ad un’ora e mezza di macchina, lavoravo come imbianchino. Al decimo giorno ho chiesto al mio titolare di farmi tornare dalla mia famiglia, non ce la facevo più». Najib aveva sedici anni quando è partito, uno in meno di Waleed. Loro del business illecito sulla tratta di quelle vite umane non ne sapevano nulla.
«Ci avevano rassicurato che non fosse pericoloso e nemmeno illegale» ci dice Waleed. Ma perché abbandonare tutto?
Waleed sognava l’Europa, un mondo in cui poter vivere serenamente.
Najib in parte detestava l’Egitto. «Nella mia regione c’è solo una chiesa; un’altra è stata costituita, ma in incognito. Molti sanno che si tratta di un’azienda casearia; in realtà noi ci riunivamo per pregare».
Libertà e lavoro sono le parole che si rincorrono nel loro racconto. «Immaginavo l’Italia come il mondo dei sogni», ci dice Najib. Adesso è al quarto anno dell’istituto industriale ed ha completato la scuola di pizzaiolo. La scorsa estate ha pure lavorato in un lido. Una nuova vita, in Italia, è iniziata.

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