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Mimmo Lucano: «In Europa porto l’umanità di Riace»
Dal ritorno alla politica attiva alla tragedia di Roccella Jonica, il sindaco di Riace piega anche come la fede l’abbia sostenuto nella sua battaglia giudiziaria.
Dietro la richiesta di 7 anni e 11 mesi di reclusione per Mimmo Lucano avanzati dalla Procura di Locri nel processo “Xenia” ci sono tutte le motivazioni che hanno portato il pool di magistrati, guidati dall'esperto Luigi D’Alessio, a mandare alla sbarra l'ex sindaco di Riace, piccolo borgo della costa ionica calabrese, e l'intero sistema-accoglienza che gli è valso notorietà in tutto il globo.
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Ma come è stata accolta dall’opinione pubblica calabrese questa richiesta dei pm Michele Permumian e Marzia Currao? Il processo “Xenia” - fin da subito - è stato etichettato come “politico”, anche perché sotto il profilo giudiziario si sono da subito palesate alcune lacune. Prima il Riesame di Reggio Calabria e poi la Corte di Cassazione hanno emesso delle sentenze che vanno nella direzione opposta del Gip di Locri che firmò l’arresto di Lucano nell’ottobre 2018. Nello specifico il Tribunale del Riesame ha stigmatizzato sulla scelta di porre agli arresti domiciliari Lucano poiché non ravvedeva «condotte penalmente rilevanti», mentre la Cassazione ha escluso il reato di frode alla Pubblica Amministrazione a carico dell'ex primo cittadino.
Sulla possibile “natura” politica del procedimento giudiziario, però, ha voluto chiarire lo stesso procuratore di Locri, D'Alessio, durante la requisitoria di qualche giorno fa: «Non è un processo all’accoglienza. Non si è voluto contrastare il principio di accogliere le persone che arrivano da altri paesi, dove vivono in condizioni di sofferenza. Questo ufficio non ha ricevuto alcun tipo di pressione, lavorando sempre con estrema attenzione e serenità».
Molti osservano al processo “Xenia” con trepidante curiosità, specialmente quanti nel mondo del NonProfit avevano fatto di Lucano un portabandiera per la Calabria. Il “rischio” è il «giustificazionismo» che D'Alessio rimanda al mittente: «Chi può dire quale fine giustifica la commissione di reati?».
Un interrogativo, però, che non scalfisce l’ampio sostegno a Lucano - dagli ambienti della sinistra radicale, ma non solo (come dimenticare la solidarietà espressa dal vescovo di Locri-Gerace, monsignor Francesco Oliva) - col rischio di trasformare l'aula di Tribunale in uno stadio costellato da tifosi. Il pathos sul processo subisce l’influenza dell’impegno politico dell'ex sindaco di Riace (che ha annunciato di volersi candidare al fianco di Luigi De Magistris alle prossime regionali), mentre il destino del «borgo dell’accoglienza» sembra interessare pochi: oggi, di quella Riace, infatti, non rimane quasi più niente.
Tantissimi simboli sono stati fisicamente divelti dal sindaco leghista Antonio Trifoli (decaduto poiché ineleggibile) con l'effetto immediato che l’esperienza di Mimmo Lucano, iniziata nel 1988 e protrattasi per 30 anni, rimanga solo nelle cronache dei giornali ancor prima che un Tribunale lo dichiari colpevole o innocente.
La Locride, però, ha imparato la lezione e in modo cocciuto, proprio come da carattere distintivo dei calabresi, ci riprova. La fa in un paese, Camini, distante appena due chilometri e mezzo da Riace. Da diverso tempo è attivo un processo di accoglienza diffusa e integrazione socio-lavorativa di migranti che stanno ripopolando il borgo dove vivevano poco più di 200 calabresi.
Sul “Modello Camini” si sono aperti i riflettori dell’Università “Tor Vergata” che, questa volta, vuole mettere nero su bianco che l’accoglienza non è reato. Per questo segue da molto vicino l’operato di istituzioni e associazioni del paese col fine di cogliere - in tempo - se ci siano anomalie di gestione, ma soprattutto per valorizzare una “buona prassi” che vuole superare le insidie del tempo. In attesa che la giustizia faccia il suo corso nei confronti di Mimmo Lucano e dell’ormai ex “borgo dell’accoglienza” di Riace ridotto a brandelli dalle inchieste e dallo sciacallaggio politico.
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