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In osservanza del lutto nazionale e su disposizione del Sindaco, le istituzioni non prenderanno parte
Cosa significhi, nel periodo quaresimale, sperimentare la rinuncia, lo può insegnare il Caregiver. Si tratta di una persona che già a vive nel proprio quotidiano una sorta di quaresima perenne, scandita da sacrifici, rinunce, momenti di cadute, ma anche risalite. Ne sanno qualcosa Antonio e la sua famiglia.
Due ragazzi disabili, uno dei quali bisognoso di assistenza continua, papà Antonio ha rinunciato al tempo libero, alle proprie passioni e, addirittura, a un lavoro, pur di dedicarsi ai propri figli. Un donarsi che incarna davvero il significato della parola «amore», non senza difficoltà, come vedremo, anche burocratiche.
Antonio Alvaro è il papà di Natale e Chiara, due ragazzi speciali. Nell’aprirci le porte della sua abitazione nel quartiere Archi di Reggio Calabria, diventata tempio d’amore, ci accompagna in un viaggio introspettivo nel mondo dei caregiver.
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Figure silenziose che dedicano la propria vita prendendosi cura dei propri cari. «Una dedizione che va oltre il semplice dovere», spiega questo straordinario genitore. «È vero, afferma, negli ultimi anni attorno alla figura del caregiver è cresciuto l’interesse. Se n’è occupata anche la politica, quasi a istituzionalizzarne il ruolo».
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In realtà, prosegue il signor Alvaro, «dietro questo termine è più facile imbattersi in familiari spaventati, nell’ombra di chi soffre o di chi è allettato». Una realtà vissuta quotidianamente da Antonio che insieme alla moglie Concetta e il secondogenito Rocco, trascorre le proprie giornate tra la cura di suo figlio Natale, disabile “gravissimo”, che richiede assistenza costante, e quella della più piccola di casa, Chiara, attualmente ricoverata all’ospedale Bambino Gesù di Roma, per cure ormai per lei indispensabili, assistita dalla madre.
Una vita fatta di sacrifici e rinunce: «alla nostra vita sociale, al lavoro. Dobbiamo anche fare i conti con le difficoltà economiche, perché oggigiorno - spiega - sostenere una famiglia senza lavorare è complicato. Poi, se ci sono due figli disabili, le difficoltà aumentano notevolmente». «La rinuncia, però, non è più tale se la trasformiamo in amore», spiega ancora Antonio nel raccontare la sua esperienza e quella della sua famiglia.
«Ci dedichiamo a Natale e Chiara 24 ore al giorno, in particolare a Natale che ha bisogno costante di assistenza e sorveglianza. La loro presenza è qualcosa di speciale per noi: la cornice della nostra vita. Ogni cosa che io, mia moglie e l’altro figlio Rocco facciamo è guidata dalla loro esistenza e dal desiderio di garantire loro il meglio possibile».
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Proprio in questo contesto d’amore è maturata la “vocazione” di Rocco che, nel dedicarsi alla cura dei fratelli, non ha rinunciato agli studi universitari conseguendo una prima laurea in scienze sociali e sta per laurearsi per la seconda volta in scienze infermieristiche.
«Per noi credenti, la rinuncia è sì un sacrificio, ma è anche il segno di un impegno che prende vita», prosegue Antonio. Uno spirito di sacrificio che si estende oltre la sfera domestica. La famiglia Alvaro ha anche fondato un’associazione di volontariato per aiutare altre persone in difficoltà.
«Non è facile spiegare agli altri come comportarsi in queste situazioni perché ognuno di noi reagisce in modo soggettivo. Dico sempre di tenersi stretti alla fede, di credere in qualcosa per trovare le energie necessarie a sostenere chi ha davvero bisogno: i nostri ragazzi, i nostri cari». Una cosa è certa, conclude il papà di Natale e Chiara, «nonostante le difficoltà, i dolori, i sacrifici che abbiamo affrontato e che ancora ci attendono, non cambierei nulla della mia vita. Questo percorso di cura e assistenza è diventato il senso della mia esistenza, un impegno che trasforma ogni rinuncia in un atto d’amore profondo e incondizionato».
«Meno servizi ci sono, più questa figura diventa indispensabile. Basti pensare ai casi in cui c’è necessità di assistenza continuata e due ore sono insufficienti». Nunzia Coppedè, cofondatrice di Progetto Sud e presidente della Fish Calabria, la Federazione per il superamento dell’handicap non ha dubbi: «il caregiver diventa una figura davvero preziosa all’interno di una famiglia, difficilmente sostituibile da un badante o altra figura adibita all’assistenza del paziente. Ecco perché va sostenuta ».
La legge licenziata il 31 gennaio scorso dal Consiglio regionale riprende le indicazioni delle varie normative nazionali in tema di caregiver, non apportando grosse novità. È comunque positivo avere una legge che riconosca e garantisca il servizio e allo stesso tempo garantisca risorse economiche proprie della Regione, pur non essendo molte, in aggiunta ai fondi destinati dal Governo. L’auspicio è che funzioni.
Questi servizi sono cruciali per alleggerire il carico dei caregiver, che si trovano spesso a dover fronteggiare da soli le necessità quotidiane dei loro cari. La mancanza si avverte particolarmente in termini di orario di assistenza disponibile, che è nettamente insufficiente rispetto alle reali esigenze. Un servizio di assistenza domiciliare adeguato dovrebbe garantire non solo una presenza sporadica ma un supporto continuativo, capace di offrire sollievo concreto ai caregiver e aiutare i non autosufficienti nelle attività quotidiane, migliorando significativamente la qualità della loro vita.
Per migliorare l’assistenza domiciliare, è indispensabile adottare un approccio personalizzato, che tenga conto delle specifiche esigenze e preferenze di ogni singolo individuo. Un piano di assistenza su misura può fare la differenza, permettendo alle persone con disabilità di vivere una vita più piena e dignitosa, e ai caregiver di avere momenti di respiro.
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Un progetto personalizzato dovrebbe valutare non solo le necessità pratiche ma anche le aspirazioni e gli interessi della persona assistita, promuovendo attività stimolanti e inclusione sociale. Inoltre, è essenziale aumentare il numero di ore di assistenza disponibili, garantendo supporto anche nei fine settimana e durante le festività, momenti in cui il bisogno di assistenza non si arresta.
La riforma mira a rendere le cooperative che gestiscono i servizi più professionali e orientate al no profit. Tuttavia, è essenziale che i servizi offerti rispondano concretamente ai bisogni delle persone, senza limitarsi al solo orario lavorativo standard.
La burocrazia rimane un problema significativo perché introduce ritardi, complessità e stress inutili nella vita già complessa dei caregiver e delle persone assistite. La necessità di produrre costantemente documentazione e certificazioni, spesso ridondanti o inutili, divora tempo e risorse che potrebbero essere impiegati in modo più produttivo. Questo aspetto diventa particolarmente gravoso quando si tratta di patologie diagnosticabili che non subiranno miglioramenti, rendendo gli adempimenti burocratici una perdita di tempo e di risorse.
Oltre alla semplificazione burocratica e all’adozione di un approccio più personalizzato nell’assistenza, è fondamentale utilizzare in modo efficace e celere i fondi disponibili per l’assistenza. Troppo spesso, le risorse finanziarie destinate a supportare i non autosufficienti e i loro caregiver rimangono inutilizzate a causa di ostacoli burocratici o di una cattiva gestione. È cruciale anche adottare un modello di compartecipazione ai costi dei servizi che non gravino eccessivamente sulle famiglie, le quali spesso si trovano già in una situazione economica difficile. Infine, è necessario promuovere una maggiore inclusione sociale e abbattere le barriere architettoniche e culturali che limitano l’autonomia e la partecipazione attiva delle persone con disabilità nella società. Solo attraverso un impegno condiviso e un cambiamento culturale sarà possibile costruire un sistema di assistenza che rispetti veramente i diritti e le esigenze di tutti.
di Paola Alessandra Repaci *
Il caregiver, definito come «colui che si prende cura», riveste un ruolo cruciale nell’assistenza a 360 gradi ai malati, spesso familiari, anziani o disabili. Questa figura si trova al centro di un’ampia gamma di attività, dalle pratiche quotidiane e burocratiche all’organizzazione di terapie e visite mediche, senza dimenticare il fondamentale supporto emotivo-affettivo. La sua opera, pur essendo di natura «gratuita», si configura come un impegno totale, che spesso lo porta a sacrificare lavoro, vita privata e hobby a causa dell’enorme investimento di tempo e risorse.
Frequentemente, i caregiver si trovano a gestire queste responsabilità senza una formazione specifica, guidati dalla convinzione di essere gli unici in grado di occuparsi adeguatamente del proprio caro. Tale carico emotivo e l’assenza di strumenti professionali adeguati possono sfociare in sentimenti di frustrazione, rabbia, ansia e, talvolta, depressione, culminando in un fenomeno noto come burnout. È un termine di origine inglese che letteralmente significa «bruciato», «esaurito» o «scoppiato».
Questo stato, descritto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) come una sindrome legata allo stress cronico mal gestito nel contesto lavorativo, rischia di trascinare il caregiver in una vera e propria crisi, dovuta alla sensazione di sentirsi, col passare del tempo, anche inadeguato alle continue richieste del malato e nel gestire l’aggravarsi della malattia.
Gli effetti del burnout includono la diminuzione dell’empatia verso il malato, esaurimento emotivo, frustrazione nell’assistenza, perdita di realizzazione personale, solitudine, calo dell’autostima e stanchezza continua. In questo caso il caregiver può spesso abusare in maniera impropria di farmaci e psicofarmaci per alleviare dolore fisico, la tensione e lo stress, specialmente se il caregiver è l’unico componente a vivere con la persona ammalata, e non ha alcun tipo di aiuto né supporto economico.
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Di fronte a questi rischi, è vitale che il caregiver mantenga un equilibrio psicofisico, garantendo che il periodo di malattia diventi un tempo «funzionale» benefico per entrambi. Un aspetto importante per gestire la situazione è essere informati sulle condizioni dei pazienti e sulla malattia; ricevere gli strumenti necessari per il trattamento, migliorando anche la comunicazione con i vari professionisti che hanno in cura il paziente per ridurre così il carico emotivo. Ricevere supporto psicologico in fase iniziale e durante tutto il percorso per riuscire ad avere una qualità di vita migliore.
Avere degli spazi per sé per gestire ed elaborare la situazione. Acquisire dunque competenze sulla gestione della rabbia e dello stress. Appropriarsi dei propri spazi e delle proprie abitudini e al tempo stesso eliminare il senso di colpa. Introdurre il concetto di «normalità» è fondamentale. Non è sempre facile chiedere aiuto in queste situazioni.
Diamo spesso per scontato che ci si debba fare carico di tutto questo perché è normale: «chi se non un componente della famiglia può prendere in carico un congiunto o un figlio?».
Quello che però dovrebbe essere altrettanto scontato è supportare preventivamente i cargiver, evitando che si trovino isolati all’interno di una situazione che spesso li porta a confrontarsi con la solitudine.
* psicologa - psiconcologa
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