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Nella scarpata dove Rosario Livatino aveva tentato di sfuggire ai killer mafiosi venne trovata la sua agenda di lavoro. Sulla prima pagina la scritta “Std” che stava per Sub tutela Dei. Una sigla che il giudice aveva riportato su tutte le sue agende e che ben rappresenta il rapporto tra il suo lavoro e la fede. Fin dal primo giorno da magistrato, ad appena 26 anni. Era il 1978 e sempre sulla sua agenda aveva scritto con una penna rossa: «Oggi ho prestato giuramento; da oggi sono in magistratura». Poi, a matita, aveva aggiunto: «Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige». Costituzione e Vangelo. Ogni mattina, prima di entrare in tribunale ad Agrigento, andava a pregare nelle vicina chiesa di San Giuseppe. E sul comodino teneva la Bibbia, piena di appunti, e il Rosario.
Sarà beato Rosario Livatino, il “giudice ragazzino” ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990 a 37 anni lungo la strada che dalla “sua” Canicattì porta ad Agrigento. Papa Francesco, ricevendo in udienza il cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, ha autorizzato la promulgazione del decreto che riconosce il martirio del magistrato siciliano assassinato «in odio alla fede». Persona semplice, non amava, per carattere e per scelta, il palcoscenico. Ma non viveva da recluso né nascondeva le sue idee. Così fu segretario della sottosezione di Agrigento dell’Anm e impegnato nell’Azione cattolica. Giustizia, impegno sociale e carità, praticate nei fatti. Andava all’obitorio a pregare accanto ai cadaveri di mafiosi uccisi. E in un caldissimo Ferragosto si recò personalmente a portare in carcere il mandato di scarcerazione per un recluso. E a chi si stupiva, rispose: «All’interno del carcere c’è una persona che non deve restare neanche un minuto in più». Coerente con quella frase, sempre trovata in una delle sue agende, un programma di vita. «Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili».
Giustizia e fede, per la quale Livatino diede la vita. Nato a Canicattì il 3 ottobre 1952 da papà Vittorio e mamma Rosalia, si laurea a 22 anni in giurisprudenza col massimo dei voti. È sostituto procuratore a Agrigento dal ’79 all’89 e si occupa delle più delicate inchieste antimafia ma anche, nell’85, della prima “tangentopoli siciliana”. Nel 1989 entra in servizio come giudice a latere e in particolare si occupa dei sequestri dei beni mafiosi, tra i primi magistrati ad applicare la legge Rognoni- La Torre che introduceva questa nuova forma di contrasto. E lo fa molto bene al punto da essere un pericolo per gli interessi mafiosi. In quegli anni tutto il territorio agrigentino era scosso da una vera e propria guerra di mafia, con centinaia di morti, che vedeva contrapposti i clan emergenti, gli Stiddari, e Cosa Nostra, il cui padrino locale era Giuseppe Di Caro, che abitava nello stesso condominio di Livatino. La motivazione che spinse i gruppi mafiosi di Palma di Montechiaro e Canicattì a colpirlo, si legge nel comunicato che annuncia la beatificazione, «fu la sua nota dirittura morale per quanto riguarda l’esercizio della giustizia, radicata nella fede». Sapeva di essere a rischio. Scriveva: «Vedo nero nel mio futuro. Che Dio mi perdoni». E poi quasi implora- va: «Che il Signore mi protegga ed eviti che qualcosa di male venga da me ai miei genitori». Ma non volle mai la scorta. «Non voglio che altri padri di famiglia debbano pagare per causa mia». Così girava con la sua utilitaria, una piccola Ford Fiesta.
Anche quel 21 settembre 1989. Come tutte le mattine stava raggiungendo il tribunale da Canicattì, dove viveva coi genitori. Sul viadotto Gasena della statale 640 viene affiancato da una moto e una Fiat Punto che lo bloccano. Dopo i primi colpi, tenta di fuggire nella scarpata ma uno dei killer lo raggiunge e lo finisce. Ben sette colpi, l’ultimo sul volto come a dire: «Devi tacere per sempre». Killer e mandanti sono stati individuati e condannati, grazie soprattutto alla coraggiosa testimonianza di Pietro Nava, agente di commercio presente in quel momento, e che da allora ha dovuto cambiare nome e vita, lui e la famiglia, ma che ripete: «Lo rifariei ancora». Uno dei killer, Gaetano Puzzangaro, in carcere si è pentito, testimoniando per la causa di beatificazione, a partire dalle ultime parole di Livatino: «Picciotti, che cosa vi ho fatto?». A ricordo c’è una stele sormontata da una croce e la scritta: «A Rosario Livatino martire per la giustizia».
«Martire della giustizia e, indirettamente, della fede» lo definì Giovanni Paolo II. Era il 9 maggio 1993 e dopo un incontro commuovente coi genitori del magistrato, il Papa nello splendido scenario della Valle dei Templi lanciò la famosa invettiva contro i mafiosi. «Lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta, un giorno verrà il giudizio di Dio!». E anche papa Francesco fa riferimento a Livatino nell’udienza al Csm il 17 giugno 2014, quando invita i giudici a essere di «integra moralità per l’intera società», menzionando due modelli a cui ispirarsi: Vittorio Bachelet e Rosario Livatino, definendolo «testimone esemplare, giudice leale alle istituzioni, aperto al dialogo, fermo e coraggioso nel difendere la giustizia e la dignità della persona umana». Quattro giorni dopo il Papa “scomunica” i mafiosi nella Piana di Sibari. Ancora una volta il piccolo giudice incrocia la strada di una Chiesa che proclama l’incompatibilità tra mafie e Vangelo.
* Avvenire
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