La replica di Cuzzocrea, alla guida di Assindustria: «C’è il terrore di essere messi in ginocchio».
«Siamo tutti omertosi o conniventi? No, c’è solo paura»
Redazione Web
20 Gennaio 2017
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di Andrea Cuzzocrea * - Ho letto con interesse l’intervista che il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, ha rilasciato a don Davide Imeneo e Federico Minniti per L’Avvenire di Calabria. Mi trovo d’accordo su molti punti dell’analisi del capo della Direzione distrettuale antimafia, cui la nostra comunità riconosce, unanimemente e a ragion veduta, grandi meriti nell’azione di contrasto alla cri- minalità organizzata. Personalmente mi preme sottolineare anche la notevole capacità del Procuratore di studiare bene il contesto sociale in cui vive e opera. Quella di Reggio è davvero una realtà piegata, a tratti soggiogata, apparentemente inerme. Noi industriali siamo parte della classe dirigente della città e abbiamo il dovere di assumerci le responsabilità che derivano dal nostro ruolo. Quindi, pro quota, anche noi abbiamo contribuito a portare Reggio così in basso. Non voglio eludere la questione più volte evocata dal Procuratore, riguardo agli industriali reggini, ed affrontata anche nell’intervista. È tutto vero ciò che egli afferma: ha partecipato ad alcune nostre iniziative pubbliche, ha ascoltato e letto documenti, si è confrontato con noi. Ha chiesto alla nostra categoria di denunciare. Ma la nostra categoria non l’ha fatto. Siamo tutti omertosi o, peggio, conniventi? No. Devo dire che in molti miei colleghi c’è paura. Paura per i rischi alla loro incolumità o a quella dei loro cari; paura di ritorsioni, paura di essere messi economicamente in ginocchio, paura di fallire. Questa città, meravigliosa e ma-ledetta, è dominata dai “signori” della ‘ndrangheta che rafforzano il loro potere grazie alla sudditanza e all’ipocrisia della classe dirigente locale, ma anche al vassallaggio di quanti ordiscono delazioni, maldicenze, trabocchetti e vere e proprie trappole. L’autocommiserazione, il rifiuto delle regole, l’omertà, la ricerca di scorciatoie, l’ostentazione delle relazioni “che contano”, costituiscono gli elementi di un quadro d’assieme che non è maturato solo negli ultimi anni. Per capire Reggio e i reggini occorre rivolgere lo scandaglio della nostra attenzione verso le aspettative deluse del passato e l’industrializzazione mai realizzata. Senza speranza e senza lavoro, è ingiusto ma è quasi inevitabile essere fragili ed esposti alle lusinghe della ‘ndrangheta. Reggio oggi è così e il Procuratore fa bene a ribadirlo. Ma se la situazione è questa, lo si deve a cause profondissime che nessuno ha descritto meglio di Nicola Giunta, ancora oggi impareggiabile nel tratteggiare il profilo di una certa mentalità reggina: «Né jeu cuntentu, né tu cunsulatu». Eppure, nonostante condivida molte delle osservazioni di Federico Cafiero de Raho, non riesco a non essere ottimista. Non posso non cogliere il positivo della nostra città. Non voglio rassegnarmi all’idea che un fato ineluttabile abbia riservato a questa terra solo una dimensione di sottosviluppo e arretratezza. Soprattutto, ripudio la prospettiva di un’irredimibile e generalizzata mafiosità del nostro tessuto sociale. È su questo fronte che stiamo conducendo una difficile battaglia: quella sulla revisione del sistema delle interdittive antimafia, che noi riteniamo vada sottratto alla discrezionalità della pubblica amministrazione per essere attribuito a un vaglio di natura giurisdizionale. Uno dei massimi scrittori e intellettuali di questa regione, Corrado Alvaro, sosteneva che «il calabrese vuole essere parlato». Credo che questa sia una grande verità. Per aiutare i calabresi occorre processare e condannare colpevoli e mafiosi, ma contemporaneamente attuare una grande e profonda rivoluzione culturale che parta dai più giovani e salvi la parte sana della nostra società. Una parte che è ampiamente maggioritaria. Per vincere la diffidenza atavica dei calabresi verso l’Autorità e lo Stato, il primo passo è scacciare la loro convinzione di essere cittadini negletti. Un grande sacerdote reggino, don Italo Calabrò, ammoniva: «Nessuno escluso mai». Vorremmo che questo principio, profondamente e autenticamente cristiano, divenisse il cardine di ogni azione che la classe dirigente reggina, nella sua interezza, dovrà mettere in atto per debellare in maniera definitiva la ‘ndrangheta. Dobbiamo reprimere i fenomeni criminali ma al tempo stesso rieducare e recuperare alla vita comune sia i condannati, sia i loro nuclei familiari e sociali, condizionati da mentalità e modus operandi prettamente mafiosi. Solo così, attraverso una battaglia di lunga lena che deve vederci tutti impegnati dalla stessa parte, potremo sconfiggere la ‘ndrangheta una volta per tutte.
Dal Procuratore generale di Reggio Calabria al governatore della Calabria fino all’iniziativa della Questura reggina che ha deciso di piantare un albero in memoria di Giovanni Falcone a Piazza Castello.
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