Avvenire di Calabria

Dopo il campo-lavoro con Libera a Condofuri (Reggio Calabria)

Un giovane della Comunità Ministeriale: «Boss non sono ‘modelli’»

Federico Minniti

Share on facebook
Share on twitter
Share on whatsapp
Share on telegram
Share on facebook
Share on twitter
Share on whatsapp
Share on telegram

«Si può cambiare, però dobbiamo farlo tutti. La 'ndrangheta da soli non si sconfiggerà mai». Sono parole pronunciate da un ragazzo della Comunità Ministeriale di Reggio Calabria. Li abbiamo incontrati al rientro dal primo campo estivo della loro vita. Giovanni e Pasquale (nomi di fantasia) ci raccontano della loro esperienza con Libera a Condofuri (Reggio Calabria). «Abbiamo ascoltato tante testimonianze - ci dice Giovanni – più che un campo-lavoro, per noi è stata formazione». Entrambi vivono la prova della detenzione presso la Comunità ministeriale da diversi mesi. Ma quali storie hanno sentito a Condofuri? «Su delle famiglie calabresi – prosegue Giovanni – che sono vittime di mafia». Il tema è ostico, ma i due non hanno paura a trattarlo con semplicità:

«Ci ha colpito “come” raccontavano la loro storia - spiega Pasquale – se devo indicarne una, penso alla testimonianza di Liliana, mamma di Massimiliano Carbone, ucciso dai clan nel 2002». Dopo questo momento di condivisione, i ragazzi hanno svolto una “camminata” di tredici chilometri fino a giungere ad una lapide, quella di Adolfo – Lollò - Cartisano, fotografo ucciso dalla 'ndrangheta nel 1993. Oltre l'ascolto anche l'azione: due murales della “legalità” dedicati al giudice Antonino Scopelliti e l'attività sportiva in un campetto sorto su un terreno confiscato alla 'ndrangheta. Gli chiediamo se conoscevano, prima, la figura del magistrato ucciso dalla mafia ed entrambi ci rispondono di no. Eppure di mafia si parla tanto e spesso anche «a sproposito» ci dicono rivolgendosi all'attività dei giornalisti. Questo – secondo loro – crea delle «idee sbagliate» come è emerso dal confronto con gli altri ragazzi dei gruppi scout di Pisa presenti a Condofuri con loro al campo di Libera. L'associazione di don Ciotti conosciuta «solo qua dentro (dopo la detenzione, ndr)», dice Pasquale. «Non avevo mai pensato al male fatto dalla 'ndrangheta – afferma Giovanni – non mi ero mai messo dalla parte delle vittime». Anche perché quello è un ruolo scomodo che inchioda alle responsabilità i mafiosi: «Quelle persone, dopo aver subito l'omicidio di un loro parente, sono pure rimaste da sole».

Chiediamo loro se si sono chiesti il perché di questo “abbandono”: «Gli altri hanno paura», dice Pasquale. Nei loro racconti affermano con insistenza che il vero problema è l'assenza del lavoro, ma se gli obiettiamo che le cosche chiedono il pizzo, ci confermano che non sono certi che denuncerebbero i loro aguzzini: «Loro hanno “potere”, comandano tutto. E poi hanno i soldi, sono rispettati». La 'ndrangheta è anche questo: fascino terribile. Ma i ragazzi – proprio in virtù della loro esperienza detentiva – non hanno dubbi nel dire che “loro”, i boss, «non sono i nostri punti di riferimento». Un piccolo passo in avanti, perché, conclude Giovanni «si può tranquillamente vivere rispettando delle regole».

Articoli Correlati

beni confiscati bando

Beni confiscati, ecco chi li gestisce in Calabria

In occasione dell’anniversario della legge 109/96 che ha compiuto 28 anni, l’Associazione antimafia Libera ha presentato il rapporto annuale sulla gestione e destinazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata.