Avvenire di Calabria

Padre Carlo Cuccomarino racconta l’impegno quotidiano accanto ai detenuti dei penitenziari reggini: San Pietro e Arghillà

Viaggio nelle carceri, il cappellano: «Qui c’è tanta speranza»

Il progetto del sacerdote: «Con “Chiesa in entrata” voglio offrire la possibilità ai parroci e alle associazioni laicali di conoscere da vicino la realtà detentiva»

di Davide Imeneo

Share on facebook
Share on twitter
Share on whatsapp
Share on telegram
Share on facebook
Share on twitter
Share on whatsapp
Share on telegram

Luoghi cari alla missione della Chiesa. Dentro le mura dei penitenziari reggini: Arghillà e San Pietro. Un viaggio speciale tra dolore, pentimento, ma anche tanta voglia di cambiare davvero. Padre Carlo Cuccomarino, il cappellano delle carceri: «Ecco come il Vangelo può trasformare questi posti di vera sofferenza in spazi di crescita»

Padre Carlo Cuccomarino è il cappellano delle carceri di Reggio Calabria. Ci accompagna in uno speciale viaggio in uno dei luoghi più cari alla missione della Chiesa.

👇 Ascolta l'episodio di oggi del Podcast Good Morning Calabria con padre Carlo Cuccomarino

Padre Carlo, lei è il cappellano di Arghillà e di San Pietro...ma cosa fa un prete in carcere?

Un prete in carcere, come si può ben comprendere, non va a titolo personale. Così come in ogni ambito pastorale, anche il carcere è un luogo di missione. Il cappellano va in carcere a nome di tutta la Chiesa, perché è il vescovo a dare il mandato di esercitare il proprio ministero sacerdotale in un determinato luogo.



Il prete, in carcere come in ogni altro contesto pastorale, annuncia la verità del Vangelo, che è la misericordia di Dio per tutti, nessuno escluso. In carcere, in particolare, si annuncia la salvezza, che è un dono di Dio per tutti i suoi figli.

In che modo l’ambiente carcerario, se accompagnato da un percorso spirituale, può diventare uno spazio di riflessione e crescita personale per queste persone?

Sì, effettivamente il carcere è uno spazio fisico abitato da persone, ognuna delle quali ha il proprio vissuto, il proprio passato e la propria storia. In carcere si vive una vita essenziale, che porta a cercare l’essenziale della vita stessa. Questo favorisce spesso una revisione critica del proprio passato e delle proprie scelte. Attraverso un percorso spirituale e una riflessione personale, si cerca di giungere a quella verità che Gesù Cristo ha portato sulla terra per tutti.

Quali strumenti o iniziative utilizzate per permettere ai detenuti di mantenere contatti costruttivi con i propri cari, nonostante le difficoltà legate alla reclusione?

È necessario fare una premessa: per i detenuti, il legame con i propri cari è spesso l’unica ragione di speranza e di vita. Purtroppo, il carcerato, recluso dietro le sbarre, soffre molto questo distacco dai contesti familiari e dagli affetti. La maggior parte dei detenuti vive per i propri familiari: sono l’unico motivo di speranza per loro.


PER APPROFONDIRE: Dignità e reinserimento sociale: con il lavoro, una speranza per i detenuti di Reggio Calabria


Esistono già strumenti predisposti dall’amministrazione carceraria per favorire il più possibile il contatto, sia telefonico sia attraverso i colloqui visivi con i propri cari. Inoltre, sto riflettendo sull’opportunità di estendere la pastorale carceraria anche alle famiglie dei detenuti, che vivono anch’esse il dramma della carcerazione dei loro cari. Insieme agli altri volontari, possiamo dare una parola di conforto e offrire un accompagnamento spirituale anche a chi è “fuori” ma vive questa stessa sofferenza.

Una volta terminata la pena, i detenuti trovano spesso difficoltà nel reintegrarsi nella società. Quali azioni intraprende la Chiesa per sostenerli in questa fase critica?

La difficoltà maggiore che un detenuto incontra dopo aver espiato la pena è quella di superare le “seconde sbarre”: il pregiudizio della società, che spesso è presente anche nella stessa comunità cristiana. Bisogna lavorare molto per abbattere queste barriere, che portano spesso a isolare il carcerato, escludendolo dal contesto sociale ed ecclesiale. La Chiesa interviene fin dal periodo di detenzione, attraverso il “programma per i dimittendi” destinato ai detenuti in procinto di uscire dal carcere, spesso indigenti. Il cappellano collabora con questo programma, offrendo un accompagnamento sia spirituale che psicologico e materiale, per aiutare i detenuti a reintegrarsi. È essenziale coltivare il legame con le famiglie e favorire il ritorno nella propria realtà familiare. Tuttavia, l’ostacolo maggiore resta l’integrazione lavorativa, ostacolata da pregiudizi e vincoli burocratici, come la richiesta di certificati penali per l’assunzione. Anche chi tenta di avviare un’attività privata affronta le stesse difficoltà.

Padre Carlo, quale speranza vuole offrire ai detenuti e alle loro famiglie?

Paolo VI, in un celebre discorso ai carcerati del Regina Coeli di Roma nel 1964, disse che in carcere non si può commettere un solo peccato: il peccato della disperazione, ovvero di perdere la speranza. La speranza è fondamentale per i detenuti e per le loro famiglie. Si deve restituire loro la dignità umana e cristiana, permettendo a ciascuno di avere una seconda opportunità. Abbiamo il dovere morale, in quanto cittadini e cristiani, di offrirla a questi nostri fratelli.

Cosa vorrebbe che la comunità di Reggio Calabria comprendesse del suo lavoro?

Vorrei che la comunità di Reggio Calabria, sia quella civile che quella ecclesiale, conoscesse la realtà del mondo carcerario, una realtà spesso sconosciuta. Dietro le sbarre di San Pietro c’è un mondo che vive e spera. A Reggio Calabria esiste una “città dentro la città”. Sto progettando un’iniziativa chiamata “Chiesa in entrata” per dare ai parroci e alle associazioni laicali la possibilità di conoscere il carcere e i detenuti attraverso eventi che si terranno all’interno della struttura. Così chi vive “fuori” potrà comprendere meglio questa realtà, e i detenuti si sentiranno meno soli, più vicini al tessuto sociale ed ecclesiale.

Articoli Correlati