Avvenire di Calabria

La browning di Mehmet Ali Agca spunta dal nulla, due proiettili colpiscono il papa all'addome

13 maggio 1981: 38 anni fa l’attentato contro Giovanni Paolo II

Redazione Web

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Roma, 13 maggio 1981, piazza San Pietro. Nel giorno in cui ricorre l’apparizione mariana di Fatima, una folla trepidante attende che Giovanni Paolo II, il papa polacco eletto a sorpresa nell’ottobre del 1978, a bordo dell’auto scoperta compia il secondo giro nella piazza abbracciata dal colonnato berniniano. L’aria tersa di quel maggio che preannuncia una calda estate, viene improvvisamente sferzata dall’esplosione di tre colpi di pistola, tre spari che si odono distintamente. Sono le 17.17. Gli occhi di tutti i fedeli sono di colpo rapiti da quel corpo bianco che si affloscia sul divanetto dell’automobile che poi, come impazzita, inizia una folle corsa verso la speranza nella disperazione generale. A tre anni da quel 16 marzo 1978, Roma torna nel baratro del terrore.
Ancora una volta il rumore sordo degli elicotteri e quello squillante delle sirene assorda una città che lentamente sta tentando di rialzare la testa. Questa volta, però, l’obiettivo non è un politico ma un pontefice venuto da lontano, da quella Polonia che da mesi lotta contro un regime, quello comunista, sempre più opprimente.

L’autore di quell’incredibile azione, che solo per una serie di cause fortuite - o forse miracolose - non determina la morte del papa, è un turco di 23 anni, Mehmet Ali Agca, un nome oscuro, quasi impronunciabile che di lì a poco, diventerà celeberrimo. Pur giovane – è nato a Malatya nel cuore della pianura anatolica, il 9 gennaio 1958 – Ali Agca non è certo un neofita della pistola. Il primo febbraio del 1979, infatti, aveva preso parte all’assassinio a Istanbul del giornalista Abdi Ipekci, per il quale era stato condannato alla pena di morte, sentenza, però, mai eseguita. Il 25 novembre del 1979 il futuro attentatore del papa riesce ad evadere tranquillamente da uno dei più sicuri penitenziari turchi, quello di Kartal Maltepe. Un’evasione troppo semplice, diranno i media di quel paese, tanto da far facilmente supporre che Agca sia stato aiutato e molto.

Dopo aver esploso i colpi contro Giovanni Paolo II (solo uno raggiunge completamente il bersaglio), il turco prova a fuggire, ma viene immediatamente fermato da alcuni fedeli che lo consegnano alla polizia. Condotto nel carcere romano di Regina Coeli, Ali Agca praticamente non parla, adottando una strategia difensiva che appare fin da subito quantomeno singolare. In uno stentatissimo italiano, è capace di pronunciare poche e disarticolate parole, si assume tutta la responsabilità dell’attentato, ripetendo quasi come un mantra la parola inglese only alle pressanti domande del PM di Roma su chi fossero i suoi complici.

Il 22 luglio 1981, a pochi mesi dunque da quel 13 maggio, la Corte d’Assise di Roma pronuncia la sentenza verso l’unico imputato, ed è ergastolo. Ali Agca, durante la lettura di quel verdetto, rimane tranquillo al suo posto, algido come sempre, del tutto estraneo, come se tutta quella vicenda non lo riguardasse affatto. A rendere ancora più singolare il suo atteggiamento – si pensi che fin dall’inizio decide di non avvalersi di un avvocato di fiducia, accettando quello d’ufficio – c’è l’assurda decisione di non ricorrere in appello, accettando in tal modo di rimanere per tutta la vita in un penitenziario italiano.

Il caso, dopo un’inchiesta breve, sembra definitivamente chiuso ma il sospetto che quel ragazzo dal volto ossuto e malinconico, dalle buone maniere e con una discreta cultura, possa non aver agito da solo è molto forte anche se al momento non dimostrabile. Convinto di questo è il procuratore generale di Roma che, infatti, nel trasmettere gli atti al giudice istruttore, il dottor Ilario Martella, chiede a questi di proseguire le indagini, al fine di far emergere eventuali complicità in quello che risulta un quadro delittuoso troppo semplicistico per essere vero. Sembra poco credibile che quel ragazzo turco, per motivi personali, legati a un supposto fanatismo religioso, abbia tentato di uccidere il papa. Appare, invece, molto più plausibile che Agca sia stata la pedina fondamentale per andare a dama.

Per molti mesi queste ipotesi, seppur ancorate a un apparato logico non indifferente, rimangono indimostrabili. L’unico responsabile del crimine del 13 maggio, anche nel corso del primo incontro con il giudice Martella nel dicembre del 1981 nel supercarcere di Ascoli, continua a portare avanti la precedente linea difensiva. A sparare in piazza san Pietro è stato solo lui. Agca si trincera ancora dietro un incredibile silenzio, cifra prevalente di quel suo carattere tetragono. Ma è un atteggiamento che sta per concludersi, la svolta è vicina e arriva inattesa il 29 aprile 1982. A quasi un anno dalla fallita uccisione del Santo Padre, Mehmet Ali Agca manifesta improvvisamente la voglia di parlare. Al giudice istruttore, quasi incredulo per questa imprevista loquacità, il criminale turco inizia a sciorinare nomi, date, luoghi, comincia a tessere una ragnatela complessa in cui cadono man mano persone, fatti, circostanze, moventi. Come ampiamente ipotizzato dagli inquirenti Agca non ha agito solo ma si è fatto aiutare da una sequela di altri partecipanti, turchi e principalmente bulgari.

L’episodio isolato di un fanatico religioso ora, alla luce di queste rivelazioni, assume ben altro profilo. Si tratta di un articolato complotto dietro al quale si celano importanti esponenti dei servizi segreti della Bulgaria che avrebbero versato all’organizzazione terroristica “Lupi grigi” di cui Agca fa parte, soldi, tre milioni di marchi tedeschi, nonché protezione, armi, logistica e documenti falsi. Sono dichiarazioni importanti, da tempo attese, che delineano un quadro ben più sorprendente rispetto a quello ipotizzato dalla fervida fantasia degli inquirenti italiani. Dietro l’attentato al Papa ci sarebbe uno degli stati più ortodossi del blocco comunista, ma sono pur sempre affermazioni che, per quanto sconvolgenti, debbono essere tutte dimostrate.

Agca oltre a tratteggiare compiutamente il quadro dell’operazione, non senza esagerazioni e incongruenze tipiche del personaggio e del suo forte ego, spiega anche il motivo della sua iniziale linea difensiva, consistente nell’addossarsi ogni responsabilità dell’attentato al Papa. Spiega che quella apparente folle scelta è strettamente legata alla sua salvezza. Agca avrebbe dovuto attribuirsi ogni onere in seno al fatto, sviando così la magistratura italiana dai veri mandanti, in cambio di una nuova e sorprendente evasione.

Ma l’agognata fuga non arriva. I mesi passano, Agca continua a rimanere in carcere, qualcosa nel piano non sembra andare per il verso giusto e quindi il silenzio e principalmente il porsi come agnello sacrificale di qualcosa molto più grande di lui a questo punto non ha più senso. L’opera dei giudici a partire da quel penultimo giorno di aprile si fa indefessa. Servono riscontri a quanto asserito dal loquace Agca per imbastire atti d’accusa che reggano al cospetto di apparati forti, granitici e largamente potenti. E le prime, importanti conferme iniziano ad arrivare. Emergono i diversi viaggi compiuti da Agca nei mesi precedenti, i soggiorni a Sofia; si delineano le ore immediatamente prima l’attentato e il piano che avrebbe dovuto metterlo in salvo subito dopo la conclusione dell’operazione, un piano che, però, salta, lasciando nelle maglie della rete solo un piccolo pesce.

Gli inquirenti si mettono in moto e i riscontri sulle dichiarazioni dell’attentatore turco arrivano e sono in molti casi incontrovertibili, nonostante il prevedibile contrasto della Bulgaria che inficia e non poco le indagini. Ma molti nodi apparentemente insolubili si sciolgono. Gli alibi di molti di coloro che Agca ha tirato in ballo, crollano o quantomeno vacillano e la tela che racchiude l’attentato del 13 maggio assume una trama sorprendente. La cosiddetta “Pista Bulgara” al netto di interrogatori, inchieste, riscontri ma anche di subdoli tentativi di depistaggio e condizionamento dell’attività giudiziaria, è attendibilissima al punto che il processo può essere imbastito ma, purtroppo, non sarà foriero di quei risultati che gli inquirenti si aspettano dopo mesi di durissimo lavoro.

Il 29 giugno 1986, festa dei Santi Pietro e Paolo, la Corte d’assise di Roma emette una sentenza che lascia non poco interdetti. Tutti gli imputati dell’attentato del 13 maggio (ad eccezione di Bekir Celenk, nel frattempo deceduto), infatti, vengono assolti.
Una sconfitta per la magistratura italiana ma non assoluta. La formula dubitativa della sentenza – l’assoluzione arriva per insufficienza di prove – dimostrò che la matrice turco-bulgara non fosse del tutto infondata anche se a distanza di oltre trent’anni da quel drammatico pomeriggio di metà maggio, l’unico sicuro responsabile rimane ancora e soltanto Mehmet Ali Agca.

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