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Misteri, morti sospette, perizie mai ordinate e tanti dubbi: è ancora ombrosa, a distanza di decenni, la storia delle “navi dei veleni” e delle navi “a perdere”. Uno dei tanti casi irrisolti nel dopoguerra italiano: navi utilizzate come discarica o persino – si dice – per far sparire scorie radioattive. Ma come collegare le fila di una narrazione sulla quale gravano ancora come macigni molti documenti secretati? Ci ha provato un giovane scrittore calabrese, il ricercatore dell’Università di Milano Andrea Carnì, con il suo nuovo libro “Cose Storte”, presentato a Reggio in anteprima nazionale lo scorso 12 dicembre.
Andrea, innanzitutto facciamo chiarezza: che differenza c’è tra navi dei veleni e navi a perdere?
La differenza è tra due metodi e affari criminali diversi ma connessi tra loro, ossia tra il traffico e lo smaltimento di rifiuti. La prima volta che si parla di “navi dei veleni” è nel 1979, indicando le navi che partirono e rientrarono in porti italiani con a bordo centinaia di bidoni di rifiuti tossici, con l’intento di smaltirli in Nigeria e in Libano. Per “navi a perdere”, invece, si intendono quei cargo con a bordo rifiuti e scorie radioattive presumibilmente fatte affondare nel Mar Mediterraneo con la collaborazione della ‘ndrangheta e di una «holding criminale internazionale» composta, secondo gli inquirenti, da trafficanti, ingegneri, servizi segreti deviati e “grembiuli” sporchi.
La ricerca di livelli anomali di radioattività, però, ha dato finora esito negativo. Significa che queste navi non esistono?
Gli esiti di cui noi siamo a conoscenza hanno dato spesso esito negativo. Spesso però, non sempre! In aggiunta a ciò, è necessario tenere in considerazione anche il fatto che in Italia alcuni documenti sembrano avere le gambe o le ali e guarda caso, uno di questi, documenta proprio la presenza di cesio 137 in un’area marina dell’alto tirreno. Per tornare alla domanda postami, direi che la presenza di esiti negativi, come sottolinea anche un fisico dell’Arpacal, non implica l’assenza di rifiuti radioattivi in mare ma solo un’incompletezza dei rilevamenti.
Quello che è certo è che esiste una scia di sangue che ha toccato chi indagava su queste navi: Natale De Grazia, Ilaria Alpi, Miran Hrovatin...
Si! Ed è una scia che include anche altre morti sospette perché queste navi erano strettamente connesse con altri traffici molto pericolosi tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta. Mi riferisco a traffici di armi ma anche al traffico di materiale radioattivo che, riprocessato, sarebbe stato utilizzato come arma nucleare a tutti gli effetti, come ipotizzato dal magistrato Nicola Maria Pace.
Su molti dei documenti che riguardano questo caso vige a tutt’oggi il segreto di Stato. Abbiamo speranze di conoscere la verità?
È necessario proseguire con la desecretazione per consentirci di capire realmente come sono andate le cose, inserendo il fenomeno delle “navi a perdere” all’interno di un contesto molto più ampio che riguarda la storia delle relazioni e delle politiche internazionali. Credo che un ricercatore che svolge bene il proprio lavoro può dare il suo contributo nel cammino che porterà prima o poi alla scoperta della verità.
Quanto è stato difficile raccogliere dati e metterli assieme in un lavoro di ricerca così meticoloso?
È stato impegnativo ma la passione per questo tema ha reso piacevoli anche le notti trascorse a tentare di decifrare la documentazione. Nel libro ho deciso di dare al lettore gran parte di ciò che finora avevo scoperto all’interno dei documenti declassificati, consegnando anche una prima – e finora unica – mappatura sul tema, contenente libri, articoli, documentari, relazioni parlamentari e documenti giudiziari, nel tentativo di compiere un passo ulteriore nella ricerca della verità e della giustizia.
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