Avvenire di Calabria

Intervista a Francesco Siclari, imprenditore e testimone di giustizia di Reggio Calabria sul tema imprese e lotta alla 'ndrangheta

Aziende confiscate ai clan, Siclari (Fai): «Affidiamole alle imprese “coraggiose”»

Il presidente della Federazione antiracket reggina: «Anche le imprese sane e che hanno denunciato i clan potrebbe dare il loro contributo»

di Francesco Chindemi

Share on facebook
Share on twitter
Share on whatsapp
Share on telegram
Share on facebook
Share on twitter
Share on whatsapp
Share on telegram

Non solo enti, associazioni, cooperative. «Coinvolgere anche imprese private nella gestione dei beni confiscati ai clan, aiuterebbe alla loro valorizzazione e ne beneficerebbe anche il contesto territoriale...naturalmente nel rispetto di alcuni requisiti». A sostenerlo ad Avvenire di Calabria è stato Francesco Siclari, presidente della Federazione delle associazioni antiracket e antiusura di Reggio Calabria.

Un nuovo impiego delle Aziende confiscate ai clan

«La normativa al momento non prevede tale possibilità, ma abbiamo già avviato un’interlocuzione con il Governo nazionale perché la valuti», ha riferito Siclari (nella foto insieme alla dirigente dell'Istituto Piria di Reggio Calabria a margine di un incontro su imprese, legalità e lotta alle mafie, ndr) nell'intervista rilasciata sul numero in edicola domenica scorsa con il quotidiano nazionale Avvenire.


Non perdere i nostri aggiornamenti, segui il nostro canale Telegram: VAI AL CANALE


Una proposta, spiega, in linea con l’impegno del Fai, ossia: «contribuire a rendere libero il territorio dalle ingerenze delle cosche di ‘ndrangheta». Qui di seguito vi riproponiamo l'intervista integrale che accende i riflettori anche sul tema impresa e denuncia.

Siclari, la vostra proposta ripropone il tema sotto una nuova prospettiva.

Ne siamo consapevoli. Oggi il principale problema legato alla gestione di beni e aziende confiscate e il loro mantenimento. Investire le risorse economiche anch’esse oggetto di confisca potrebbe essere una soluzione per sopperire all’esiguità dei fondi a disposizione degli enti pubblici.

Un’altra soluzione è invece ripensare a un nuovo modello di affidamento e gestione.

È una cosa su cui stiamo lavorando. Siamo convinti che aiuterebbe non solo alla loro valorizzazione dal punto di vista strutturale, ma anche economico e sociale.

In che modo?

Molte realtà economiche che necessitano di nuovi spazi per ampliare le loro attività potrebbero proprio beneficiare dell’ex patrimonio dei clan. Parliamo, ad esempio, di capannoni o terreni industriali. Tutti beni a potenziale rischio abbandono e degrado. Affidarli ad aziende serie e che rispondano a determinati requisiti aiuterebbe a recuperarli e a farli diventare risorsa e non, come a volte accade, “ecomostri”.

Non la preoccupa la possibilità che ad essere interessate possano essere aziende in qualche modo “infiltrate”?

Naturalmente è un processo che andrebbe a coinvolgere realtà o singoli imprenditori che dimostrino o abbiamo dimostrato una certa distanza da ambienti malavitosi. Come testimoni di giustizia o, comunque, persone che hanno avuto il coraggio di denunciare determinati comportamenti. È chiaro che va fatta una una selezione dei potenziali “candidati”.

Analogo discorso può essere esteso anche per la gestione delle aziende confiscate?

Certamente. Molte di esse - non solo quelle confiscate, ma anche sequestrate - vengono gestite da figure professionali che, pur specializzate, hanno un approccio poco imprenditoriale. Più basato a far quadrare i conti. Nel ripensare la figura del curatore, gli imprenditori possono offrire un valido contributo al fine di scongiurare, come spesso accade, licenziamenti e perdita di posti di lavoro.


PER APPROFONDIRE: «Un premio per chi denuncia», la proposta dell’imprenditore Nino De Masi


Dalle intercettazioni di una recente inchiesta della procura antimafia reggina, emerge il timore dei boss per le denunce degli imprenditori. Effettivamente qualcosa è cambiato?

Ho letto di questa preoccupazione da parte delle cosche nell’avvicinare gli operatori economici del territorio per timore che «se la potessero cantare». L’espressione qui dalle nostre parti utilizzata per indicare la volontà di denunciare. Significa che, anche la nostra attività di imprenditori che hanno deciso di dire no alla ‘ndrangheta, ha contribuito a smuovere qualcosa.

Oggi alla Fai quante realtà aderiscono?

Siamo una ventina a costituire oggi la “rete” antiracket. Per lo più imprese edili. Un settore che, come sappiano, storicamente fa gola ai clan. Non siamo molti. Ma il fatto che nella città di Reggio in gran parte dei cantieri sia esposto il cartello del “Patto antiracket” stipulato tra Prefettura, Federazione antiracket italiana e l’Associazione nazionale costruttori edili è un segnale e allo stesso tempo un deterrente per gli ‘ndranghetisti.

Un’azione a rendere più forte l’esperienza personale...

Bisogna ribaltare l’idea che se denunci non sei più libero. Questa gente, purtroppo, non ti dà via di scampo. La vera forza è denunciare ed è quello che cerchiamo di far comprendere agli imprenditori che si rivolgono a noi. Molti lo hanno già capito.

Articoli Correlati