Avvenire di Calabria

Il presidente nazionale della Federazione italiana delle Comunità terapeutiche, analizza il no della Consulta al referendum sulle cosiddette "droghe leggere"

Cannabis, la vera deriva culturale è la normalizzazione

«È nella relazione educativa che si può vincere la lotta contro la droga, non certo accettando e normalizzando ciò che non è né normale né accettabile»

di Luciano Squillaci *

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Cannabis, la vera deriva culturale è la normalizzazione. Luciano Squillaci, presidente nazionale della Federazione italiana delle Comunità terapeutiche, analizza il no della Consulta al referendum sulle cosiddette "droghe leggere".

Cannabis, la vera deriva culturale è la normalizzazione

È bene essere chiari sin da subito: ritengo positivo il fatto che la Consulta abbia bocciato il referendum sulla cannabis. E non per questo mi ritengo un bacchettone o un retrogrado. Il tema è delicato, e nasconde in realtà una questione ben più rilevante e pericolosa. L’ormai ventennale diatriba ideologica tra proibizionisti ed antiproibizionisti, che francamente mi sembra sempre più vuota e anacronistica, nel corso degli anni si è lentamente svuotata di significati reali. Le legalizzazione della cannabis (e della coltivazione), o peggio la liberalizzazione, rappresenta infatti solo la punta di un iceberg più radicato e profondo.


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La vera questione, sottesa e mai sino in fondo dichiarata, è la “normalizzazione” dell’uso di sostanze, in una società sempre più volta alla spersonalizzazione dei problemi in favore di stereotipi materiali che garantiscano il costante aumento di “consumo” di qualsiasi cosa, purché sia in vendita. E così le logiche di mercato soppiantano anche il buon senso, al punto da porre in secondo piano la stessa salute del consumatore.

Anche il dibattito sulla cannabis di fatto origina da tali logiche. Ed è per questo che la sentenza della Consulta, ancorché motivata da ragioni di carattere squisitamente tecnico/giuridiche, evita nella sostanza un quesito referendario che avrebbe potuto creare ulteriore confusione su un tema già di per sé estremamente complesso.

Ma soprattutto, ed è il motivo principale per il quale ritengo positivo il rigetto dei giudici costituzionali, si è evitato l’ennesimo messaggio “normalizzante” e diseducativo. Vi è infatti una chiara pericolosità sociale nel confermare, direttamente o indirettamente, che tutto sommato l’uso di sostanze è accettabile, al punto da ritenersi quasi un fatto di civiltà legalizzare almeno la cannabis, e addirittura consentirne la coltivazione in casa.

Un messaggio pericoloso soprattutto per i giovani, ai quali confermiamo una volta ancora la sempre più diffusa “cultura dello sballo”. Gli ultimi dati ci raccontano di 700mila studenti tra i 14 ed i 19 anni, che hanno assunto nell’ultimo anno almeno una sostanza psicoattiva, quasi il 30% dell’intera popolazione studentesca. E tra questi, ovviamente, oltre 1/4 usa stabilmente cannabis o cannabinoidi sintetici. E l’età si abbassa sempre di più.

Quotidianamente, nei nostri centri di ascolto in tutta Italia, accogliamo famiglie disperate che chiedono aiuto per figli di 12 e 13 anni. In generale si stima che oltre 4 milioni di italiani facciano uso di sostanze, e di questi oltre 500mila hanno necessità di una presa in carico sanitaria e sociale per problemi connessi all’abuso ed alla dipendenza.


PER APPROFONDIRE: Conferenza sulle dipendenze, Squillaci (Fict): «Una delusione»


E di fronte a tale emergenza sociale, che peraltro produce quasi due morti al giorno, la risposta non può certo essere la legalizzazione della cannabis, peraltro ottenuta a colpi di referendum abrogativo. Invece di mettere mano, in modo organico e strutturale, ad una legge sulla droga, la 309/90, ormai vetusta ed inadeguata ai nuovi bisogni di un fenomeno in continua evoluzione, si propone un referendum abrogativo che affronta “a pezzi” un problema complesso rischiando di frammentare ulteriormente le risposte sui territori.

Né ci sembra corretto motivare un eventuale percorso di legalizzazione con il solito refrain che servirebbe a togliere mercato e soldi alle mafie. Lo diciamo chiaramente: la guerra alla criminalità non si può fare sulla pelle dei nostri ragazzi. In questo momento c’è la necessità di indirizzi chiari, di messaggi forti e non annacquati da un permissivismo di comodo. Occorre tornare ad investire sulla prevenzione, sulla cura e sulla riabilitazione.

È nella relazione educativa che si può vincere la lotta contro la droga, non certo mettendo la testa sotto la sabbia, accettando e normalizzando ciò che non è né normale né accettabile.


* Presidente nazionale Fict

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