Avvenire di Calabria

Sapete cosa sono le chiese estinte? E sapete che ne esistono diverse anche a sul territorio di Reggio Calabria-Bova?

Alla riscoperta delle chiese estinte di Reggio Calabria

Grazie al lavoro certosino dell'architetto Renato Laganà siamo andati alla riscoperta delle parrocchie che non esistono più

di Renato Laganà

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Sapete cosa sono le chiese estinte? E sapete che ne esistono diverse anche a Reggio Calabria? Grazie al lavoro certosino dell'architetto Renato Laganà siamo andati alla riscoperta delle parrocchie che non esistono più, ma che hanno fatto la storia della diocesi reggina.

Quali sono le chiese estinte di Reggio Calabria?

La nostra panoramica sulle chiese estinte a Reggio Calabria parte dalla Vallata del Calopinace dove ne incontriamo due: quella dedicata a Santa Caterina nel quartiere Rodà e quella dedicata alla Madonna del Pilerio, attuale patrona dell'arcidiocesi di Cosenza-Bisignano.


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La chiesetta di Santa Caterina in contrada Rodà

Il corso del torrente Calopinace ha definito per secoli il limite dell’ambito urbano verso Sud. Il suo antico percorso, deviato durante il Sedicesimo secolo per migliorare la difesa della città, lambiva nel suo ultimo tratto le mura della città tardo medievale e, oltre l’alveo fluviale, si estendeva una campagna ubertosa che proseguiva verso il territorio delle Sbarre.

Le indicazioni sulle fonti di reddito delle chiese (Sant’Angelo Minore, San Giuseppe, Santa Maria di Melissa, Santa Maria Candelora) riportate nelle visite vescovili di quegli anni ci descrivono la presenza di «giardini arborati di celsi» tra le proprietà dei Di Bitto, di don Giovanni Alagona, dei Bosurgi, dei Lazzaro, dei Logoteta, di suor Caterinella Morisano, dei De Capua, dei Cangemi, del notaio Citrino, dei Postorino, dei Percacciolo, dei Guarna e dei D’Antonizzo.

Essi erano accessibili da un percorso extraurbano che raggiungeva il luogo dell’attuale zona di Sant’Anna per divaricarsi verso monte e proseguire verso l’interno della vallata e, verso sud, attraversando il guado della fiumara, proseguire verso la Chiesa di Santa Maria di Modena e la vallata del Sant’Agata.

Il nome di questa contrada, che risaliva sino alla collina del Trabocchetto, era «Ruda o Rodà», toponimo che è poi scomparso nei primi anni del Novecento con l’espansione della città dopo il terremoto del 1908. Nel luglio 1595, l’arcivescovo Annibale D’Afflitto, dopo aver visitato le chiese di Sbarre, risalendo il percorso della fiumara, giunse alla chiesetta di Santa Caterina «de Rudà» che distava dalla città «mezzo miglio».

La chiesa era officiata dal sacerdote Giuseppe Catania che celebrava le messe la domenica e il lunedì, ricevendo una elemosina della somma di mezzo scudo d’argento raccolta dai fedeli.

La chiesa doveva trovarsi leggermente arretrata rispetto al percorso stradale ed in facciata, sopra l’ingresso, aveva un vano per la campana del peso di «20 rotula» (circa 160 chilogrammi).

Le sue dimensioni erano di 20 palmi per 13 (pari a circa 5,40 metri per 3 e mezzo) ed al suo interno ospitava un piccolo altare sul quale era collocato un bassorilievo con l’immagine della Santa «con doi carnefici» in un tabernacolo ligneo sui cui lati erano collocati due grandi candelieri lignei e altri di ottone.

In essa si venerava anche «un quadretto di legno vecchio della Madonna». Ricco era il corredo degli oggetti e dei paramenti sacri con due pianete, delle quali una era in «fustagno cambiante» e l’altra in «fustagno di seta arangina» la cui qualità portò l’arcivescovo a chiedere che si facesse «un palio del tabernacolo» dello stesso tessuto; vi erano poi ben quattro «avantialtare», ovvero paliotti, dei quali uno era di «terzanello» (drappo di seta leggera) su supporto di seta bianca, un altro era in seta colorata con una croce gialla al centro, altri due in seta leggera turchina con ricami d’oro.

Vista la cura dell’insieme, le raccomandazioni dell’arcivescovo furono dirette a migliorare la funzionalità, chiedendo l’esecuzione di «una credenza per vestire il sacerdote» e di una «cascietta per l’elemosina» oltre alla dotazione di una «carta gloria» e di un quadretto contenente «l’oratione quando si veste il sacerdote».

Cinque anni dopo, l’arcivescovo tornò a visitare la chiesetta «posita sub moenia civitatis» e venne accolto dal suo rettore civile, Marcello Valentino, il quale si impegnava a garantire la raccolta delle «elemosine» per le celebrazioni festive della domenica e del lunedì che faceva il cappellano, sacerdote Claudio Garufi al quale veniva garantito un «salario» annuo di diciassette ducati. La relazione della visita precisava che l’immagine della «gloriosae virginis S. Catherinae» era una scultura lignea collocata all’interno del tabernacolo ligneo dipinto che era stata fatta realizzare da alcuni devoti.

Riguardo il corredo dei paramenti sacri, esso risultava arricchito con due nuove pianete delle quali una di «capicciola et seta giallina» offerta dalla moglie di Antonello Li Rose, e l’altra in «armosino» (seta leggera) azzurra con passamani rossi. Vi erano tre paliotti dei quali «uno di tono con l’imagine di S. Catherina», un altro donato dalle donne di Ottavio Logoteta, in tessuto di seta denso e rigido, ed un altro in seta verde e gialla donato da Leonora di Capua che aveva donato anche cinque tovaglie per l’altare.

Quanto richiesto dal presule nella precedente visita era stato realizzato con cura grazie anche all’impegno del rettore Marcello Valentino che venne riconfermato. Per migliorare ancora la funzionalità l’arcivescovo richiese di far modificare l’altare, accrescendolo di «mezo palmo per parte», e realizzando una predella con l’aggiunta delle balaustre dotandolo di altri quadretti riportanti i testi dell’antifona, dell’orazione, dei versetti e del «responsorio» della Santa.

La stato della chiesa, amministrata dal Valentino, confermò, nella successiva visita pastorale del 1606, quanto di positivo era emerso nella precedente, aggiungendosi la richiesta di mantenere e tinteggiare la chiesa di dentro.


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L’edificio religioso, che faceva parte della parrocchia di San Giorgio de Gulpheriis, in occasione della visita dell’arcivescovo D’Afflitto del dicembre 1616, risultava amministrato dai procuratori Quintiliano Lopa, Giuseppe Gregorio Lazzaro, Pompeo Politi e Nicola Antonino Megalizzi che curavano la raccolta dei lasciti e delle elemosine che garantivano 24 ducati annui per la celebrazione delle messe nei giorni di domenica e festivi e nei giorni di martedì e sabato per i benefattori.

Cappellano era il sacerdote Antonio Marulli. Le dimensioni della chiesa erano cresciute. Misurava, adesso, 30 palmi per 24 (pari a circa 8 metri per 6,50). Nel 1632 era cappellano il sacerdote Domizio Filocamo e procuratore Giorgio Siclari che fece aggiungere la celebrazione di due messe settimanali nei giorni di martedì e sabato per i suoi defunti.

Nel 1635, in occasione dell’ultima visita del D’Afflitto le elemosine raccolte dal rettore Giacomo Sorbara avevano raggiunto i 40 ducati e vi celebrava il sacerdote Giuseppe Guarna. Alle raccolte ed ai legati si erano aggiunti i proventi annui di due terreni pagati da Pompeo Megali e dall’erede di Paolo Auracà. Nel 1671, in occasione della visita pastorale dell’arcivescovo Matteo De Gennaro, la chiesa si presentava un po’ più dimessa rispetto al passato e in essa celebrava le messe l’abate Giuseppe Cara.

La devozione reggina alla patrona di Cosenza: la Madonna del Pilerio

Dove oggi si sviluppano i quartieri urbani a Sud, appena fuori dall’attuale centro storico, nel Cinquecento, attorno ad una piccola città racchiusa dalle mura, c’era una ubertosa campagna, irrigata dalle acque torrentizie, nella quale prevalevano le specie del giardino mediterraneo e, in modo particolare i gelsi.

A coltivarla c’erano persone che vivevano entro le mura della città e la raggiungevano in meno di un’ora di cammino o persone che avevano le loro case disperse lungo la rete dei percorsi interpoderali sulla degradante collina. Già abbiamo avuto modo di descrivere la presenza della chiesa di «Santa Caterinella» e di conoscere l’antico quartiere di Rodà che comprendeva anche un’altra chiesetta, approssimandosi a quella che era la Collina del Salvatore.

Essa era dedicata a Santa Maria del Pilerio, devozione in quel periodo presente in altri centri della diocesi reggina come Fiumara di Muro e San Lorenzo, ma in particolare in Calabria, nella città di Cosenza di cui è patrona. Sembra che il culto alla Madonna del «Pilastro» si sia diffuso o nel tardo periodo angioino per l’assonanza con il «termine francese Pilier», che significa pilastro o colonna (Enzo Gabrieli, Luigi Intrieri, 2015) o in relazione alla presenza aragonese e spagnola nell’area reggina tra il Quattrocento e il Cinquecento, legata al culto di Nostra Signora «del Pilar», patrona della Spagna.

Il 29 marzo 1595 l’arcivescovo Annibale D’Afflitto, proveniente dalla vicina chiesa, giunse a quella che indicò come «S. Maria de Piler», denominandola poi, nella visita del 1600 come «S. Salvatoris seu Lo Pileri» probabilmente per la vicinanza alla collina del Salvatore e, successivamente «S. Maria de Pilari» (1616, 1628, 1631) e «Sancte Marie de Pileri» (1629).

L’arcivescovo Matteo De Gennaro, nella visita del 1671, la indicò come «S. Maria de Pilar», termine che restò invariato sino alla fine dell’Ottocento. L’arcivescovo D’Afflitto vi trovò cappellano, il sacerdote Antonino Zangari, che apparteneva ad una delle tre famiglie che garantivano buona parte della rendita di ventiquattro ducati annui, cioè gli eredi di Francesco Zangari (20 aquile l’anno), il «magnifico Giovanni Bernardo Bosurgi» (12 aquile l’anno) e Paolo Strati (12 aquile l’anno) che derivava dai proventi dei loro giardini, «in contrada Ruda», che circondavano la chiesa.

Il resto veniva integrato con le elemosine raccolte tra i fedeli e dal lascito di un ducato annuo che versavano gli eredi di Francesco Giando Nemala. Nella chiesa di Santa Maria «de Pilar» si venerava «un’icona della Madonna piccola in tavola». Ricca era la dotazione di paramenti e arredi sacri, tra i quali un paliotto di cuoio «con la Madonna del Pileri in mezzo», due grandi candelieri ed una campana nel vano che chiudeva in alto la facciata.

Il presule raccomandò di completare l’arredo dell’altare con un quadretto del «Carta Gloria» e di costruire una credenza per i paramenti dei presbiteri che vi celebravano. La relazione della visita effettuata cinque anni dopo aggiungeva altre notizie in merito alla chiesa che era stata edificata «dai devoti della contrada per la comodità di poter ascoltare la messa».

Ogni anno, il giorno 5 agosto si festeggiava la Vergine del Pilar, in coincidenza con la festività della Madonna della Neve. In quella occasione i devoti eleggevano i rettori per la durata di un anno per provvedere alla sua gestione e indicare il cappellano. Le dimensioni della chiesa erano quasi il doppio rispetto a quella di Santa Caterina di contrada Rodà. Raggiungevano circa quaranta palmi in lunghezza e ventidue in larghezza (pari agli attuali undici metri per sei).

Trovando in cattive condizioni la chiesa, amministrata soltanto da Giovanni Bernardo Bosurgi, l’arcivescovo gli affiancò Paolo Strati vincolando la celebrazione delle messe, da parte del sacerdote Antonino Zangari, alla sua diretta autorizzazione.

Ma fu ancora più severo nello stabilire che nessun sacerdote potesse celebrare in essa se, entro due mesi non si provvedesse a «sistemare la porta per impedire al vento di entrare» e a otturare i buchi nelle pareti e inoltre a riparare il calice, ad accrescere le dimensioni dell’altare «di mezzo palmo per parte con la sua pedana in legno e le balaustre», realizzare la piccola credenza già ordinata ma non eseguita, acquistare un nuovo messale e ad aggiungere due corporali, dieci purificatori e una borsa per il calice e un velo.

Sedici anni dopo quanto richiesto non risultava eseguito e, oltre ad avanzare al rettore Giovanni Bernardo Bosurgi una pressante richiesta per mettere mano a riparare le macerie delle parti demolite della chiesa, ordinò di aggiungere una acquasantiera di marmo all’ingresso e di sospendere «un lampadario ornato che volgarmente viene chiamato lampiero» sul presbiterio.

L’ultima visita dell’arcivescovo D’Afflitto venne fatta il 12 novembre 1635, al tempo in cui era cappellano il sacerdote don Francesco Ferranti, mentre erano procuratori o rettori Paolo Bosurgi e Paolo Strati.

Quanto precedentemente richiesto dal vescovo era stato eseguito e nella chiesa si celebravano messe non solo nei giorni di domenica e nelle festività ma anche nei giorni di martedì, giovedì e sabato di ogni settimana per ottemperare al legato perpetuo di Cremisina Bosurgi che lasciò la somma di venti ducati annui «di cui dieci su un giardino a Prumo tenuto da Giuseppe De Capua, che confina con il vallone…, cinque li paga Marco Quattrone su tutti i suoi beni, e altri cinque Placido Falduto su due beni e su un giardino in contrada Valanidi».


PER APPROFONDIRE: Reggio Calabria tra chiese estinte e impegno permanente


A quello di Francesco Zangari che lasciò «un legato di ducati cinque come elemosina sopra una casa sita nel convicinio di S. Angelo Grande» pagato da Giuseppe Candio; a quello di Domizio Labozzetta di quattro ducati annui su un giardino in contrada Rodà.

La chiesa risultava ben tenuta nel 1671 all’epoca della visita dell’arcivescovo Damiano Polou e le sue rendite si erano accresciute grazie al concorso della vedova di Marcello Silvestro, degli eredi di Salvatore Schimizzi, di Francesco Angelini, di A. Miliadò, di Giuseppe Caridi, di Francesco Logoteta, di Antonio Melissari, degli eredi di Geronimo Genoese, degli eredi di Bastiano Lamantia, del magnifico Salvatore Pizzimenti, di Pietro Macrì e degli eredi di Clea Giallongo.

L’edificio, rimaneggiato dopo il terremoto del 1783, venne visitato dall’arcivescovo Converti nel 1882 che lo citò come Oratorio. Distrutto dal terremoto del 1908 non venne più ricostruito.


Articolo in aggiornamento.

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