
Una firma che vale carità speranza e accoglienza
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Se è vero come è vero che la speranza convenzionalmente viene associata al colore verde, il seminario diocesano di Reggio Calabria, intitolato alla figura di papa Pio XI, la rappresenta in pieno questa speranza. Da un lato perché colpisce la bellezza della natura tutto intorno, degli alberi e dei giardini che lo circondano. E dall’altro perché lì dentro si formano i futuri sacerdoti della Chiesa. Presente e futuro prossimo, insomma, che procede sulle gambe di persone assolutamente normali, senza meriti particolari, elette da Dio per servire il suo popolo. Studiano per diventare dei cristiani adulti, per conoscere da vicino Colui che li ha portati a lasciare ogni certezza, ogni affetto, ogni progetto di vita per arrendersi alla volontà di Dio Padre. Nel gruppo dei trenta seminaristi, una ventina vengono dalla diocesi reggina, un paio da quella di Locri, quattro da Congo e Madagascar, in virtù di un accordo tra le chiese locali. Anche le età sono assai disparate: si va dai 18 ai 50 anni, segno che la vocazione è per tutti, senza requisiti né anagrafe.
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Le storie di vita di questi seminaristi sono diversissime tra loro, ma tutte accomunate dalla chiamata a seguire il Signore. Nel suo progetto di santità rivolto a ogni cristiano, Dio si incarica di proteggere e custodire questi tesori contenuti in vasi di creta. C’è chi ha lasciato la fidanzata, chi lo studio da dentista insieme al papà e un lavoro sicuro con un conto in banca a tanti zeri. Chi come Olivier, 33enne congolese, voleva sì diventare prete, ma rimanendo nella sua zona, nel suo clan, perché aveva paura di non riuscire a comunicare, a imparare una nuova lingua. E Dio l’ha chiamato a uscire dalla sua terra, come Abramo, inviandolo in “missione studio” a Reggio Calabria. In tanti tra questi seminaristi hanno combattuto come Giacobbe con Dio fino a quando si sono riconciliati con la loro storia, con il loro passato fatto di separazioni dei genitori, di fragilità, di sofferenze. Le loro storie sembrano intrecciarsi come i fili di un tessuto, che Dio ha con pazienza aspettato di tessere, a dispetto delle ribellioni di ciascuno. Lo ha raccontato Alessandro, che a un certo momento ha detto al Signore: «Tu ti fai la tua vita e io mi faccio la mia e amici come prima».
Oltre il deserto c’è stata per tutti la fedeltà di Dio. Come racconta Maurizio, 38 anni e una carriera di avvocato stravolta da un incontro profondo con la sofferenza di un malato psichiatrico. «Ma chi te la fa fare?» gli ripetevano i colleghi, ricordandogli che aveva delle doti, era bravo a praticare la giustizia del mondo. Ma lui ricercava da sempre la giustizia di Dio, la misericordia, che spesso lo aveva messo in imbarazzo nel suo esercizio professionale e sentiva che il cammino di doppiezza non poteva durare a lungo. Davide ha 23 anni e la sua ormai ex fidanzata pure: erano compagni di classe.
C’è rimasta male, ma poi ha capito. Per lui il Signore aveva pensato un altro amore, pur permettendogli di sperimentare cosa vuol dire amare una donna, essere fidanzato in maniera cristiana. «È stato buono il fidanzamento, un’esperienza che mi è servita per capire come trattare gli altri, ovvero con tenerezza» spiega Davide. Nessuno qui usa i verbi coniugati al futuro: è Dio che fa la storia ogni giorno e loro lo comprendono benissimo.
Non sono certi che questo cammino di 5–6 anni di formazione lì porterà al sacerdozio, non hanno la garanzia che questa sarà la strada. Ma la percorrono ugualmente. Hanno attraversato crisi, ripensamenti, titubanze, esattamente come tutti i chiamati a compiere la Sua volontà: così come nel matrimonio, altrettanto nella vita consacrata. E come si capisce questa volontà? «Col discernimento, guardando ai segnali di Dio» spiega Antonio, ordinato diacono e prossimo prete.
Facile a dirsi, più difficile a capirsi là fuori, oltre quel cancello di metallo che separa la struttura dal resto del mondo. «Gesù stesso ci ha inviati nel mondo, ma non per conformarci alla mentalità del mondo» spiega don Sasà Santoro, rettore del seminario. Da parroco ha abbracciato otto anni or sono una nuova missione, consapevole che nella Chiesa qualunque cosa fai, la fai per Dio e mai per te stesso. Un ruolo difficile, pieno di responsabilità. Perché quella famosa parolina “discernimento” necessita di tempo, pazienza. Necessita di una luce sparata come un faro nella notte per leggere i fatti della propria vita e così capirne la volontà. Molti dei compagni di classe di Matteo, il seminarista più anziano con i suoi 50 anni, non ci sono più perché sono stati ammazzati durante la guerra di mafia di inizio anni 90 a Reggio. «Che merito ho io per essere nato in una famiglia che mi ha preservato da certi giri? Nessuno.
Sono una persona graziata da qualcuno lassù» dice. La stessa gratitudine che accompagna i racconti di tutti. «Non c’è una logica, bisogna affidarsi» ricorda François, settimo di nove figli rimasti in Madagascar. A lui il parroco chiese di lasciare tutto e fare la valigia: in appena tre giorni gli è cambiata la vita. Non sarà stato facile. Ma il coraggio, quello sempre viene da Gesù Cristo. Che come fece col cieco di Gerico ripete anche oggi a tutti i cristiani, preti e sposi, seminaristi o fidanzati, «Coraggio, àlzati, ti chiama». E ti cambia la vita, donandoti il centuplo.
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